Scriveva Sun Tzu che “una strategia senza tattiche è il cammino più lento verso la vittoria. Le tattiche senza una strategia sono il clamore prima della sconfitta”. Tutto il mondo oggi si chiede come interpretare lo stato di salute dell’economia cinese e quali saranno le strategie, in campo economico e politico, messe in campo dalla superpotenza asiatica per far fronte alla situazione, al di là delle tattiche a cui ci ha abituati, a partire dalla scarsa trasparenza dei dati pubblicati.

Gli indicatori economici che abbiamo a disposizione per valutare l’economia cinese segnano senza dubbio una fase di difficoltà, tanto che alcuni autori ipotizzano l’inizio di un periodo di stagnazione. Il primo settore in cui si sono resi evidenti i segni di questa crisi è stato quello immobiliare: in particolare il caso Evergrande, rivelatasi la società di sviluppo immobiliare più indebitata al mondo, è stato a lungo nei titoli delle principali testate internazionali. La crisi di questo settore è tuttavia solo una parte di una situazione più ampia. Nel 2023 il PIL è cresciuto del 5,3%, dato in aumento rispetto all’anno precedente, ma comunque in netto rallentamento rispetto ai ritmi di crescita degli ultimi 30 anni. Segno che la brusca fine della politica “zero Covid” non ha catalizzato la ripresa economica. Inoltre il tasso di deflazione (-0,8% annuale a gennaio ‘24) dimostra che i consumi interni non sono abbastanza sostenuti.

Un altro elemento che potrebbe diventare una debolezza strutturale dell’economia cinese è la questione demografica: la popolazione cinese è calata nel 2022 per la prima volta in 60 anni e in particolare è calata la fascia di popolazione in età lavorativa. A ciò va aggiunto il preoccupante dato della disoccupazione giovanile, cha ha raggiunto il 19,9% nel 2022, portando l’istituto nazionale di statistica a rimodulare i criteri per il conteggio dei disoccupati. La Cina dunque si trova ad affrontare un problema tipico degli Stati occidentali, che però nel caso cinese non si accompagna a un benessere diffuso come in Europa, ponendo la questione di riuscire a finanziare servizi di welfare più ampi senza un’adeguata base di prelievo delle tasse.

“È in discussione il modello di una Cina fabbrica del mondo grazie al massiccio impiego di manodopera a basso costo.”

Per cercare le ragioni strutturali di questa fase di stallo, dobbiamo provare ad analizzare in queste poche righe i cambiamenti che l’economia cinese ha dovuto attuare negli ultimi anni - mettendo in discussione il modello, che tutti abbiamo in mente, di una Cina “fabbrica del mondo” grazie al massiccio impiego di manodopera a basso costo, affermatosi a partire dagli anni Ottanta. La crisi finanziaria del 2008, con la conseguente diminuzione della domanda internazionale, ha reso necessario un cambiamento di tale modello, con la Cina che è riuscita a sostenere un elevato tasso di crescita grazie ad ingenti piani di investimento, ma al prezzo di un netto aumento del debito. Ne consegue la necessità di mettere al sicuro l’economia dalle oscillazioni della domanda internazionale tramite lo stimolo della domanda interna (si noti infatti che le esportazioni cinesi sono in calo dal 2018). Tuttavia, a seguito della pandemia di Covid, questa non è aumentata a sufficienza, innescando il circolo vizioso che abbiamo provato a descrivere, con la progressiva sfiducia di consumatori e mercati.

Un altro elemento fondamentale di cui tenere conto è la guerra commerciale con gli Stati Uniti, iniziata con l’amministrazione Trump e consolidatasi durante l’attuale mandato di Biden, a dimostrazione del fatto che - è bene ribadirlo - si tratta di una tendenza strutturale della politica statunitense. Il centro della contesa è soprattutto la produzione ad alta tecnologia, con l’imposizione da parte degli Stati Uniti di severe restrizioni alla vendita ad aziende cinesi di chip prodotti con tecnologie americane. Gli obiettivi principali di queste iniziative sono ostacolare l’accesso della Cina a tecnologie avanzate potenzialmente cruciali in ambito militare e rafforzare l’autonomia strategica americana nel campo dei semiconduttori.

Mentre la vanità degli Stati nazionali europei si ostina ancora a non vedere il dato di fatto della crisi degli Stati nazionali, stiamo già assistendo ai primi segnali della crisi storica degli Stati continentali.”

Ampie sono le ripercussioni sulle aziende del settore e sugli Stati europei, privi di una politica industriale comune e di una voce unica in politica estera, passivamente dipendenti dai rapporti con gli USA ma anche da quelli con la Cina. Si pone qui uno dei quesiti fondamentali del nostro tempo: la ricerca di un equilibrio tra il perseguimento di una necessaria autonomia strategica, nel nostro caso europea, e l’apertura di nuovi spazi di cooperazione globale per governare l’interdipendenza tra i popoli. La guerra in Ucraina e le minacce cinesi su Taiwan ci hanno mostrato una volta per tutte la necessità della prima, ma non meno urgente è la seconda, senza la quale i grandi problemi del presente, a partire dall’emergenza climatica, non possono trovare risposta.

Difficile stabilire quanto il rallentamento dell’economia cinese sia dovuto all’assenza di libertà interna e ai limiti della pianificazione statale a danno dell’iniziativa privata, secondo la classica tesi liberale, oppure all’attuale situazione internazionale. Il punto è che, mentre la vanità degli Stati nazionali europei si ostina ancora a non vedere il dato di fatto della crisi degli Stati nazionali, stiamo già assistendo ai primi segnali della crisi storica degli Stati continentali, di cui difficoltà economiche e nuove tendenze imperiali sono i sintomi più evidenti. In tale prospettiva va inquadrato l’allargamento del gruppo BRICS e in generale le alleanze a geometria variabile tra Stati non appartenenti al cosiddetto mondo occidentale, di cui la Cina è essenziale regista silenzioso. Queste dimostrano la volontà di contestare il primato statunitense ma sono prive del peso e della coesione necessari a disegnare un nuovo ordine internazionale.

Ora, se la situazione economica cinese probabilmente impedirà, almeno a breve termine, il sorpasso nei confronti degli Stati Uniti, resta salda la posizione della Cina nello scacchiere geopolitico ed economico mondiale. Non possiamo che chiederci se l’intelligenza strategica di Xi Jinping e la sua non trascurabile capacità di adattamento e trasformismo politico - si pensi alla riscoperta di Confucio come collante identitario della società cinese, accanto a Marx - saranno orientate verso un disegno imperiale con pericolose conseguenze per il mondo o verso la ricerca di un equilibrio con gli Stati Uniti, da cui possa prendere forma una riforma delle istituzioni multilaterali, a partire da quelle economiche; unica via per garantire la stabilità economica globale.

 

  

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