Negli Stati Uniti sono iniziate a gennaio le primarie che porteranno alla nomina dei candidati alle elezioni presidenziali di novembre. In campo Democratico le votazioni vedono come candidato di punta il Presidente uscente Biden, che ha battuto con percentuali tra il 64 e il 90% i suoi avversari: il deputato del Minnesota Dean Phillips, che si è poi ritirato, e la scrittrice e attivista Marianne Williamson. 

Nel Partito Repubblicano, dopo i risultati di martedì 5 marzo è rimasto come unico candidato l’ex Presidente Trump. A gennaio, dopo il deludente risultato ottenuto in Iowa, si era ritirato il governatore della Florida Ron De Santis, che avrebbe dovuto essere il principale avversario di Trump all’interno del partito ma nel suo discorso di ritiro ha dato il suo sostegno all’avversario. Era rimasta come unica alternativa Nikky Haley, ex ambasciatrice Usa alle Nazioni Unite che si è ritirata dopo il Super Tuesday, giorno in cui si è votato in 15 Stati. 

La Haley, pur evitando i toni eccessivi di Trump, sostiene posizioni conservatrici, ad esempio riguardo all’immigrazione o all’aborto. Inoltre, nonostante abbia ammesso che i cambiamenti climatici sono dovuti all’azione umana, ha incoraggiato il ritiro degli USA dagli accordi di Parigi. L’unico Stato in cui ha ricevuto una maggioranza di voti è stato il Vermont con poco più del 50% di consensi; nelle altre primarie, Trump ha sempre vinto con percentuali tra il 50 ad oltre l’80%. L’ex candidata nel suo discorso di ritiro ha sostenuto che Trump deve guadagnarsi il suo voto; inoltre, ha espresso preoccupazione riguardo all’unità del partito in cui una parte dei membri e degli elettori è fortemente contraria alla figura di Trump. 

Il dissenso tra i Repubblicani, che si era già evidenziato dopo gli avvenimenti di Capitol Hill, non ha però portato alla costruzione di una solida alternativa all’ex Presidente. Le spaccature interne si sono accentuate con l’abbandono di alcuni esponenti moderati e l’avanzata di posizioni estremiste che tendono a non rispettare le regole della convivenza democratica. Permane tuttavia un gruppo più centrista che cerca di mediare tra le varie posizioni senza inimicarsi i fedeli di Trump. Le posizioni più estreme e populiste, che sul fronte economico tendono anche ad abbondonare il tradizionale liberismo, hanno presa su una parte di cittadini che, temendo di perdere una serie di vantaggi consolidati negli anni si appoggia a forze diverse da quelle tradizionali, spingendosi anche a rifiutare le regole democratiche quando le sue aspirazioni non vengono soddisfatte. 

Sul fronte avversario, Biden è stato sconfitto solo nel territorio delle Samoa americane ma in alcuni Stati, come il Minnesota e il Michigan, una parte delle schede intorno al 13% è risultata “non schierata” (uncommitted), rappresentando la protesta di alcuni elettori appartenenti alla comunità arabo-americana, di movimenti pacifisti e della Chiesa battista, per via del sostegno del Presidente ad Israele nella guerra a Gaza. Bisogna anche considerare che al momento gli indici di gradimento di Biden sono piuttosto bassi: con un 47% di cittadini che disapprova il suo operato, molti elettori, compresa una parte dei Democratici, avrebbero desiderato un candidato diverso, anche a causa di preoccupazioni in merito alla possibilità che Biden possa sostenere fisicamente un altro mandato. Tra gli esponenti del partito, non si sono tuttavia fatti avanti candidati altrettanto forti e in grado di porsi come figura di sintesi tra posizioni distinte e contrapposte che avrebbero altrimenti rischiato di frammentare il consenso interno e il bacino elettorale Democratico.

Nell’ultimo sondaggio del New York Times il 48% degli intervistati ha dichiarato che voterebbe Trump e il 43% Biden. Il 97% dei precedenti elettori di Trump tornerebbe a votarlo mentre un 10% di elettori di Biden non lo sceglierebbe più. 

Trump, nel frattempo, deve affrontare una serie di problemi giudiziari i cui risultati, secondo i sondaggi, influiranno notevolmente sulle decisioni degli elettori. Trump è accusato di frode ai danni dello stato per aver cercato di sovvertire i risultati delle elezioni 2020 e di interferenza elettorale in Georgia per lo stesso motivo. Un’altra imputazione riguarda l’aver conservato illegalmente documenti riservati. La Corte Suprema ha annullato le decisioni delle Corti di Colorado, Maine e Illinois che lo avevano dichiarato ineleggibile sulla base del 14° Emendamento, stabilendo che solo il Congresso potrebbe decidere per l’interdizione. La Corte Suprema dovrà anche pronunciarsi sulla richiesta di immunità per le imputazioni. Intanto, Trump e una delle sue società sono stati condannati ad una multa di 355 milioni di dollari per truffa. Per quanto riguarda gli altri processi, il timore è che in caso di nuova elezione Trump si conceda la grazia da eventuali condanne.

L'ex Presidente, nel frattempo, ha esternato critiche molto forti contro Biden e la sua amministrazione accusata di essere responsabile dei problemi non solo interni al paese ma anche internazionali, come l’attacco ad Israele del 7 ottobre. Inoltre, ha dichiarato di voler intaccare l’indipendenza del potere giudiziario ponendolo sotto un maggiore controllo presidenziale. Si tratta di dichiarazioni ancora più pericolose in un Paese federale in cui il potere giudiziario deve garantire il rispetto delle competenze tra i vari livelli di governo. Analoghe dichiarazioni hanno riguardato l’apparato amministrativo che Trump vorrebbe riempire di suoi fedeli. 

Sul fronte interno, l’attenzione è puntata sul pacchetto di 95 miliardi approvato in Senato dopo lunghi negoziati che prevede finanziamenti per Ucraina, Israele e Taiwan. La Camera a maggioranza Repubblicana ha intenzione di bloccare la proposta. Sarebbe già in discussione un compromesso da 60 miliardi in cui i fondi per l’Ucraina vengono notevolmente diminuiti mentre sono stati inseriti finanziamenti sul controllo all’immigrazione al confine con il Messico, un tema prioritario per i Repubblicani. Trump invita i suoi a non cedere a compromessi e sul fronte europeo ha addirittura incoraggiato la Russia ad attaccare quei paesi che non spenderebbero a sufficienza per sostenere la NATO. 

Queste preoccupanti dichiarazioni, anche se sono state colte da molti esponenti politici europei come esagerazioni da campagna elettorale, sono comunque in linea con la volontà di un minor coinvolgimento statunitense nella NATO. Questo scenario dovrebbe essere una spinta ulteriore per i paesi dell’Unione ad approfondire il processo di integrazione e a creare una politica estera e di difesa europea, insieme ad un governo federale che possa difendere i valori democratici.

 

  

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