Dalla Striscia ai due fronti su Litani e Bab-el-Mandeb, Medio Oriente in preda alla violenza.

Dal 7 ottobre, l’intera attenzione mediatica della comunità internazionale in Medio Oriente si è concentrata sulla Striscia di Gaza con report continui e quotidiani del numero di vittime palestinesi prodotte dai bombardamenti aerei israeliani in una delle aree più popolose del mondo. Tuttavia, l’operazione “Diluvio di al-Aqsa”, nelle intenzioni dell’ala militare di Hamas (Yahya Sinwar e Mohammed Deif, capi dell’ala militare, avrebbero preso la decisione finale sull’attacco senza nemmeno consultare l’ala politica costituita da Khaled Meshal e Ismail Haniyeh) avrebbe dovuto scatenare un conflitto su larga scala, che, ad oggi, non si è ancora prodotto. Ciononostante, Hizbullah nel nord di Israele e gli Houthi nel Mar Rosso hanno aperto due fronti minori in appoggio ad Hamas o, meglio, in protesta contro il numero elevatissimo di vittime (oltre 30.000) causate dall’incursione militare israeliana a Gaza.

HIZBULLAH E IL LIBANO. Tra i due avversari, Hizbullah rappresenta certamente il nemico più temibile per Israele, sia per il suo vasto arsenale militare – comprensivo di 180.000-200.000 missili (cresciuti esponenzialmente dai 15.000 del 2006, data dell’ultimo conflitto con Israele) –, che per i tunnel scavati al confine con Israele, ma anche i suoi 40.000 miliziani esperti. Dallo scoppio delle ostilità l’8 ottobre, Hizbullah ha subito 200 perdite tra i propri miliziani e 50 tra i civili, mentre Israele ha registrato la morte di 12 soldati e cinque civili. Pur non lanciandosi in una guerra aperta, anche dopo attacchi israeliani avvenuti in profondità nel territorio libanese, Hizbullah è riuscita parzialmente nel suo scopo di aprire un secondo fronte, destabilizzando il nord di Israele, dove 80.000 civili sono stati costretti all’evacuazione. Tuttavia, Hizbullah ha dimostrato in più occasioni la sua volontà di contenere il conflitto, sia accogliendo l’invito alla moderazione di Teheran, che non vuole sacrificare un suo alleato così importante in una guerra per procura per la causa palestinese, sia reagendo alle pressioni interne al Libano per una de-escalation. Dal 7 ottobre, infatti, il Governo Netanyahu ha a più riprese manifestato il proprio timore a convivere con una milizia non-governativa altamente armata e finanziata dall’Iran ai propri confini, affermando di volere respingere la minaccia di Hizbullah oltre il fiume Litani, posto a circa 30 km dall’attuale confine territoriale tra i due Paesi, in ottemperanza alla risoluzione del Consiglio di sicurezza ONU 1701/2006. Una misura di sicurezza che riceve molto consenso da parte dell’opinione pubblica israeliana, che in un sondaggio condotto il 15 febbraio scorso dall’Istituto di Democrazia Israeliano (IDI), riporta che il 46% degli Israeliani sarebbe favorevole ad un attacco militare su larga scala al Libano per stemperare per sempre la minaccia di un nuovo 7 ottobre al nord [1]. Il Libano ha ottime ragioni per non essere trascinato in un conflitto, dato che attraversa una grave crisi finanziaria dopo l’esplosione del porto nell’agosto del 2020, con un’inflazione che ha raggiunto punte del 270% (aprile 2023) e l’80% della popolazione in povertà secondo i dati del Fondo monetario internazionale. Tuttavia, è evidente che nessuno dei partiti concorrenti e nemmeno l’esercito abbiano la forza di disarmare il “Partito di dio”. Esso continuerà, dunque, a costituire una minaccia latente per Israele.

GLI HOUTHI E LO YEMEN. La seconda fonte di instabilità regionale è costituita, invece, dagli Houthi, il gruppo sciita responsabile dell’insurrezione contro il governo centrale di Sana’a nel settembre del 2014, del rovesciamento del Presidente Hadi e della sua sostituzione con un “Supremo Comitato Rivoluzionario”. Il colpo di stato degli Houthi nel 2014 portò allo scoppio di una guerra civile che perdura fino ad oggi e da cui il Paese è uscito diviso in un nord controllato dagli Houthi, un sud controllato da varie fazioni repubblicane, sostenute da potenze straniere come l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, a loro volta divise tra loro, ed una fascia sud-est desertica, controllata da un gruppo jihadista affiliato ad al-Qaeda. Il conflitto ha provocato un numero altissimo di vittime: 150.000 morti per violenze, di cui circa 20.000 per bombardamenti sauditi, e circa 227.000 per carestia e assenza di cure, oltre a 4,5 milioni di sfollati

Nonostante la pericolosità della guerra civile, entrata ormai nel suo decimo anno, a preoccupare la comunità internazionale è stato il coinvolgimento delle milizie Houthi nella guerra in corso nella Striscia e la saldatura possibile tra fronti regionali distanti come Gaza e il Mar Rosso. Da metà ottobre, infatti, le milizie Houthi hanno lanciato missili prima sulle portaerei israeliane e poi americane, in solidarietà con la Palestina, fino ad annunciare il loro formale ingresso in guerra il 31 ottobre. Da metà novembre, gli attacchi si sono intensificati non rivolgendosi più verso obiettivi militari, ma verso mercantili e navi cargo battenti bandiere occidentali. Circa 40 attacchi si sono susseguiti in rapida successione, portando molte società di spedizioni internazionali a sospendere temporaneamente le loro attività per la pericolosità dello Stretto di Bab-el-Mandeb, dove transita circa il 15% del commercio mondiale. A seguito di questa impennata di violenza, l’Amministrazione Biden ha deciso di intervenire autorizzando nuovi raids aerei sugli Houthi – gli USA non sono nuovi a bombardamenti aerei in Yemen - a partire dall’11 gennaio scorso, lanciando l’idea di un’operazione internazionale anti-Houthi, ribattezzata “Prosperity Guardian”, rivolta alla difesa della libertà di navigazione degli Stretti. 

Gli attacchi degli Houthi, però, non rappresentano una minaccia reale dal punto di vista militare – non sono ancora riusciti ad affondare nemmeno una nave – né per l’Europa né per gli USA e tantomeno per Israele, troppo lontano per essere raggiunto dai loro razzi e droni. Tuttavia, essi sono in prima linea nel disarticolare il commercio mondiale, con 8 tra i 10 più grandi armatori del mondo che hanno sospeso il transito nel Mar Rosso virando verso il Capo di Buona Speranza in rotta verso l'Europa, con una deviazione complessiva di 9.000 km che allunga dai 6 ai 14 giorni il viaggio medio [2]. Anche l’UE ha varato una propria missione (ASPIDES), a cui partecipa anche l’Italia, con obiettivi analoghi. 

Dunque, gli Houthi potrebbero anche non rappresentare quella minaccia immediata alla pace mondiale delineata dalla Risoluzione 2722/2024 del Consiglio di sicurezza, ma gli Stati Uniti potrebbero avere altri interessi di più lungo periodo a militarizzare l’area, ad esempio in funzione anti-russa o anti-cinese, con Beijing che si è infatti astenuta sulla risoluzione UNSC 2722

SCENARIO PER IL FUTURO PROSSIMO. In conclusione, il conflitto israelo-palestinese, la guerra d’attrito israelo-libanese e gli attacchi Houthi nel Mar Rosso rappresentano tutti pezzi di un unico puzzle - un tentativo di destabilizzare la regione da parte dell’Iran e delle milizie filo-sciite allineate a Teheran a danni di Gerusalemme e dei suoi alleati occidentali -, ma restano comunque pezzi disgiunti che vanno affrontati singolarmente. Sul primo fronte, è necessario considerare il ruolo destabilizzante giocato in primis da Israele nell’annunciare un’operazione di terra finale a Rafah, dove sono concentrati oltre un milione e mezzo di Palestinesi già profughi interni alla Striscia e completamente inermi di fronte ad un potenziale attacco israeliano: è, dunque, necessario fare tutto il possibile per evitare un’operazione dagli esiti disastrosi, tanto per i Palestinesi in termini di vittime, che per gli Israeliani, per l’elevato rischio di responsabilità in un crimine di massa. Per quanto riguarda il nord di Israele e il conflitto con il Libano, occorre premere per la prosecuzione dei contatti diplomatici per la stipula di un confine internazionale tra i due Paesi e per un ritiro di Hizbullah oltre il fiume Litani in cambio di consistenti aiuti internazionali, altrimenti il conflitto tra Israele e Hizbullah si preannuncia altamente probabile e risulterà in un confronto molto più letale di quello in corso con Hamas. Infine, per quanto riguarda il conflitto in corso tra Paesi occidentali e Houthi, sarebbe utile togliere loro il pretesto di intervenire a favore dei “fratelli palestinesi”, alimentando una retorica fortemente popolare nelle piazze arabe, ponendo fine al conflitto a Gaza, per vedere probabilmente cessare immediatamente anche gli attacchi ai traffici internazionali nel Mar Rosso [3], suscettibili di provocare nuove tensioni interne al nostro continente, già polarizzato sugli aiuti militari ed economici all’Ucraina. Per disinnescare le multiple tensioni esistenti in Medio Oriente, che rischiano di cumularsi le une alle altre in un pernicioso effetto-domino, occorre partire da Gaza: fermare gli Israeliani a Rafah comporterà il blocco dei lanci di missili dal Libano e costringerà gli Houthi a desistere dalle loro operazioni di sabotaggio in assenza di un pretesto legittimo. Con una sola mossa capace di invertire la rotta, si otterrebbe a cascata un triplo beneficio. Certamente, sullo sfondo rimarrebbe aperta la partita con l’Iran, con cui ormai i contatti diplomatici sono ai minimi storici e prossimo a dotarsi della bomba nucleare: non esattamente una buona notizia, ma un altro dato sul quale ragionare lucidamente, meglio se in un Medio Oriente rafforzato da un’alleanza israelo-saudita, ipotizzabile solo dopo il termine dell’attuale guerra a Gaza e la costituzione di uno Stato palestinese.

Claudia De Martino
(Ricercatrice in Studi mediorientali)


Note
1 IDI, War in Gaza Survey 11 (February 12–15, 2024), https://en.idi.org.il/articles/52976.
2 Euronews, Alessio Dell’Anna, “Mar Rosso, cosa c'è da sapere sulla crisi che mette a rischio il commercio mondiale”, 27 dicembre 2023,
https://it.euronews.com/2023/12/27/mar-rosso-tutto-quello-che-ce-da-sapere-sulla-crisi-che-mette-a-rischio-il-commercio-mondi.
3 Mohammed Ali Thamer e Betul Dogan Akkas, Red Sea Hostilities: Local, Regional, and Interna-tional Implications Carnegie Endowment for In-ternational Peace, 30 gennaio 2024, https://carnegieendowment.org/sada/91500

 

  

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