Il negoziato sulla Brexit segna un momento importante della sfida sovranista all'idea di unità europea.

Il negoziato tra l’UE e il Regno Unito sulle future relazioni reciproche è stato aperto il lunedi 2 marzo. Il clima teso fa fortemente dubitare che un accordo sia raggiunto entro il 31 dicembre come chiesto dal Regno Unito, insofferente della stato di satellite della UE cui lo condanna la transizione concordata. Questo articolo cerca di spiegare una delle ragioni del nostro scetticismo.

Negoziare gli interessi conta, ma anche le idee e i discorsi contano, e chi non lo riconosce non può affatto comprendere la nuova politica europea nella fase dell’offensiva nazional- populista.

Ci sono discorsi pubblici che assumono un valore simbolico, e gli inglesi ne sono maestri, come già in occasione del famoso discorso du Bruges del 1988 di M.Thatcher, in cui annunciò che non si sarebbe fermata a « I want my money back », ritornello del Consiglio eurropeo di Fontainbleu del 1984, ma che avrebbe iniziato la sua autentica battaglia ideologica, e la guerriglia decennale contro la « ever closer union » e per un’Europa confederale.

Invitato dall’Institut d’Etudes européennes dell’Université libre de Bruxelles a presentare per la prima volta la posizione della Gran Bretagna di Boris Johnson all’inizio del grande negoziato sulle relazioni future con la UE, David Frost consigliere del Primo Ministro e Capo delegazione per le trattative con Michel Barnier (che continua a rappresentare bene l’UE) ci ha servito, letteralmente, un pugno nell’occhio. Attendevamo un duro ma pragmatico negoziatore; invece, con cortesia da gentlemen, cultura oxfordiana e humor britannico ci ha voluto sorprendere, con una conferenza che già nel titolo annuciava le sue grandi ambizioni culturali e profetiche: « Reflections on the Revolutions in Europe », un’autentica ideologia del Brexit.

Secondo David Frost non solo il Brexit segna una svolta storica, ma la sua portata filosofica sta nella sfida continentale della rivoluzione sovranista all’ Unione Europea. Certo, non possiamo che apprezzare l’intenzione, al momento della separazione del Regno Unito dalla UE, di affrontare il cambiamento in corso in una prospettiva storica di longue durée, ricca di implicazioni per il pensiero politico, e di alzare così il livello di un dibattito che per decenni gli inglesi ci hanno abituato a involgarire come pura questione di convenienze utilitaristiche reciproche. Rispondere a Frost che non ci interessano libri e autori del XVIII secolo rivela in alcuni leader europei preoccupante miseria non solo culturale ma politica. La scelta dei riferimenti teorici, dei testi e autori ispiratori, è infatti estremamente significativa di una visione del presente e del futuro.

Nella scelta del titolo stesso della sua conferenza Frost ha inteso esplicitamente evocare il celebre pensatore e parlamentare inglese Edmund Burke (1729-97), critico radicale della Rivoluzione francese, e il suo libro più noto, « Reflections on the Revolution in France » (1790). Per almeno due ragioni questo riferimento a Burke deve far riflettere, perchè esso è inquietante e rivelatore di una filosofia sovranista, estremamente aggressiva verso l’Unione Europea.

Primo, E. Burke non era solo un anti-giacobino. Egli ha radicalmente rifiutato l’idea moderna di Stato di diritto, basata su quelli che definiva « principi astratti », come « i diritti dell’uomo», la « costituzione scritta », « l’utopia democratica » espressione della « follia della tabula rasa ». Non poteva essere anacronisticamente contro la Francia rivoluzionaria nelle sue forme più radicali, ma si ergeva contro la moderata monarchia costituzionale del 1790; insomma, egli non rifiutava solo Rousseau, ma l’intera filosofia giusnaturalistica, che aveva dominato lil pensiero europeo della modernità, da Spinoza a Althusius, da Montesquieu a Sieyès, da Kant a Hegel, senza dimenticare i giusnaturalisti inglesi Locke e Hobbes. L’alternativa di Burke è basata sulla necessità di preservare l’assoluta continuità con la tradizione nazionale, il modello del 1688 inteso come « restaurazione », rifiutando l’idea che una società possa esere ri-costruita secondo valori di libertà e giustizia. Egli arriva persino a difendere il ruolo fondante del « pregiudizio sociale » come base della società, le gerarchie sociali contro l’eguaglianza, un orientamento anti illuminista che rischia di avvicinarlo al conservatorismo più illiberale.

La seconda ragione per inquietarsi per questa scelta di riferimento teorico è più importante a livello politico. D. Frost infatti non solo si è ispirato al libro di Burke, ma ha inteso modificarne lievemente il titolo: « Riflessioni sulle rivoluzioni in Europa » al plurale. Perchè al plurale? Frost ha così precisato, passaggio centrale della sua profezia, che in Europa si fronteggiano due rivoluzioni: la rivoluzione del secolo passato, rappresentata dai decenni dell’unificazione europea caratterizzata dalla condivisione e delega delle sovranità nazionali (« sovereignty sharing and pooling»),e, d’altro lato, la nuova rivoluzione che apre il secolo XXI, simbolizzata dalla Brexit, una rivoluzione per riconquistare il controllo sovrano delle frontiere nazionali (« catching back the borders control »). Un discorso del genere pronunciato nella prima università di Bruxelles non suona soltanto come il contraltare del famoso discorso per l’integrazione europea, del ministro tedesco degli esteri di Schroeder, Joschka Fischer alla università Humboldt (2020). In più esso assume persino un accento provocatore: l’UE apparterrebbe ad un pur significativo passato, mentre invece è il sovranismo nazionalista che rappresenta il sol dell’avvenire. Chi altro, se non D. Trump, ha proposto la Brexit come un modello da seguire da parte di tutti i paesi europei? Non si può non notare che il discorso « profetico » di Frost va ben oltre le prospettive dei sovranisti di estrema destra del continente, che da Kacinsky à Orban, da Salvini a M. Le Pen, dall’aggressiva AfD tedesca alla spagnola Vox, hanno tutti rinunciato, specie dopo la sconfitta alle elezioni europee del 26 Maggio 2019, a proporre l’uscita del loro paese vuoi dalla UE vuoi dall’Eurozona e praticano una politica che ricorda quella di M Thatcher: cambiare dall’interno l’ UE, verso un modello più debole e confederale.

Invece di proporre una ricerca su un’idea di Europa che ci accomuni al di là della Brexit, e cercare convergenze ad alto livello, Frost ha scelto di dividere e contrapporre nel modo più radicale l’integrazione dei 27 e il sovranismo, come filosofie alternative, visioni del mondo opposte.Il conservatore illiberale Burke diventa uno strumento per una filosofia dello scontro. Ma, per questa via Frost non solo rende più difficile il negoziato ma, con la sola eccezione della cortesia British, ha finito per aggravare tutti i nostri dubbi sulle future relazioni reciproche, soprattutto intorno a tre grandi interrogativi:

  1. Nessuno è in stato messo in grado da Frost di rispondere alla domanda che tuttavia si imporne dopo l’uscita del 31 gennaio 2020: quale modello di sviluppo economico –sociale scieglieranno i conservatori inglesi? Andrew Gamble, prof a Cambridge, ha bene argomentato che la « Brexit di sinistra », venduta invano dal laburista euroscettico Corbyn agli elettori disorientati, è impossible (apparentemente « il socialismo in un solo paese » appare attraente solo alla condizione di non vivere in quel paese). Ma non è chiaro se il modello conservatore britannico (meglio: inglese) del XXI secolo assomiglierà all’ambizioso sogno vittoriano della May di una « Global Britain, ovvero piuttosto a quello che l’allora premier Cameron aveva sprezzantemente rimproverato nel 2016 a Farage: une piccola idea introversa e modesta, una « Little England»? Solo segno positivo: Frost promette che gli inglesi non vogliono abbassare gli standards, ma paradossalmente rifiutando gli standards socialo/ambientali UE. Altri, numerosi « Brexiters » hanno farfugliato sintesi confuse delle loro ambizioni: il mito di una « Singapore on the Thames », un paradiso fiscale (dimenticando che Singapore funziona grazie al 30% di popolazione di immigrati, il che non sembra proprio l’ideale dei Brexiters); si tratterebbe, ha commentato la Merkel, di un concorrente sleale alle frontiere dell’ UE, incompatibile con la proposta di un accordo commerciale di seconda generazione, altamente regolatore, tipo CETA. Non è chiaro dunque nemmeno agli inglesi cosa il governo Johnson farà della indipendenza politica e ed economica rivendicata e ostentata nel Mandato negoziale dato a Frost e pubblicato giovedi 27 febbraio. La confusione che regna nei palazzi di Londra condizionerà la qualità degli dei compromessi su cui lavorerà senza concessioni l’ottimo negoziatore che si è rivelato M. Barnier.
  2. Legato al modello di società è il grande tema della lotta al cambiamento climatico. Esso potrebbe costituire un terreno di convergenza tra UE e Regno Unito, poichè l’importantissima conferenza della COP 26, a fine 2020, è annunciata in co-presidenza tra Regno Unito e Italia. Ma nè Frost nè Johnson hanno l’aria di mettere in evidenza queste potenzialità di accordo ad alto livello. Se la presa di distanza del governo conservatore dal clima-scetticismo di Donald Trump potrebbe avvicinarci, non si può che constatare che la decisione dell’UE di fare del « Green Deal» la priorità delle priorità è in contrasto con una scelta del Regno Unito in favore di un modello competitivo al ribasso, paradiso fiscale, basato sul dumping sociale ed ambientale
  3. Infine, il tema della sicurezza non viene affrontato seriamente dal Regno Unito che si profila come un’isola nel bel mezzo dell’Atlantico. E’ evidente che la Gran Bretagna, uscendo dalla UE non esce dall’Eurropa: continua ad avere interessi di sicurezza sul continente europeo che dovrà per forza gestire in collaborazione con noi, con la UE, prima potenza. Così fecero, non solo W.Churchill ma tutti i governi britannici dai tempi di Napoleone e del successivo Concerto Europeo.

L’Europa è più impegnata di prima per la propria Unione della difesa. In questo senso, come hanno detto, non solo Macron ma anche Mogherini, pur se la Brexit è certamente una triste notizia, essa è anche un’opportunità per i 27: nessuno puo’ negare che l’Unione Europea ha fatto più progressi verso l’Unione per la difesa e la sicurezza nei tre anni post- referendum Brexit che in 40 anni con il Regno Unito: PESCO, unità difesa alla Commisisione, Agenzia armamenti etc. E’ paradossale che, mentre le minacce comuni non fanno che aggravarsi, dalla Russia al Medio oriente, alla Libia, al rischio di diventare tutti, inglesi compresi, le vittime sacrificali della battaglia bipolare tra Usa e Cina., il Regno Unito non solo esca dall’ UE ma non proponga di consolidare rapidamente forme di cooperazione.

In conclusione, cosa vuole il governo Johnson? Competizione o cooperazione? IL 26/2, M.Barnier ha espresso preoccupazioni convergenti con le nostre: non solo la retorica interna punta sull’enfatizzazione di indipendenza e sovranità, ma persino a Bruxelles, ministri britannici di rilievo si presentano con una retorica aggressiva che interpreta la Brexit come prima tappa di una « rivoluzione europea della sovranità » e vede la svolta in corso e persino il negoziato come una sorta di eutanasia graduale dell’UE.

Ma per rivenire alla comparazione da parte di Frost, con la condanna di Burke della Rivoluzione francese in nome del conservatorismo britannico, occorre ricordare che mentre la Déclaration des droits de l’homme e i valori della Rivoluzione francese continuano ad esercitare un’influenza europea e mondiale dopo 230 anni, sono i regimi controrivoluzionari che sono stati condannati dalla storia, e dimenticati, con l’eccezione dei nostalgici di De Maistre, Burke o più tardi di Mussolini e dei vari fascismi nazionali. Certo che, se i conservatori britannici alzano il livello della sfida, proponendosi come leaders di una rivoluzione nazional/sovranista continentale, gli Stati della UE non possono rispondere tirando a campare e litigando sul bilancio. Come prima potenza del continente, è urgente responsabilità della UE, primo, di consolidare la sua unità interna, e, secondo, di offrire una prospettiva all’Europa tutta, una prospettiva innovatrice che sta già maturando nei fatti, attraverso la costruzione di cerchi concentrici intorno ad un centro, un nucleo più integrato e leader politico, cerchi concentrici che, rispettivamente, comprenderanno in ruoli distinti, da una lato, i paesi che aspirano a raggiungere il centro e, dall’altro, i recalcitranti, quei paesi i cui governi hanno la testa rivolta verso pericolosi miti nazionalisti del XIX secolo e manipolano quella che è diventata, con evidenza, l’ipocrisia della sovranità nazionale da riconquistare.


Mario Telò è Professore alla LUISS e Presidente emerito dell’Institut d’Etudes Européennes dell’ Université Libre de Bruxelles.

 

  

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