Nel mese di luglio i casi di coronavirus in America Latina non hanno ancora raggiunto il picco, i contagi hanno superato i tre milioni e i morti sono circa 200.000, con il Brasile che purtroppo guida questa triste classifica con quasi la metà dei decessi seguito dal Messico. Così, mentre nel resto del mondo, lentamente, si riorganizza la vita sociale ed economica, l’America Latina è nel ciclone della pandemia con conseguenze che vanno ben al di là di quelle sanitarie e umanitarie. E’ noto che il mondo intero, oltre ad aver pagato in termini umani un costo enorme per le tante vittime, conoscerà un periodo di crisi economica, sociale e finanziaria, ma se Stati Uniti e Europa hanno le istituzioni, la forza e le risorse per riprendersi nel breve periodo, l’America Latina rischia di precipitare in un caos economico e politico che richiederà per la ripresa un decennio. Secondo la Commissione Economica ONU per l’America Latina (Cepal), si profila almeno un decennio prima che gli Stati dell’area possano riprendersi dalla crisi e nei documenti di studio già si parla per loro di “..un nuovo decennio perduto”. Si sottolinea un nuovo decennio, perché purtroppo l’America Latina ha già perso molte occasioni in passato per riprendersi dalle periodiche crisi finanziarie e politiche e taluni, nel descrivere le possibili conseguenze del virus, parlano del rischio di una catastrofe non solo umanitaria.

Sul piano sanitario non vi è una sola nazione dell’area che abbia le strutture necessarie a far fronte alla enorme massa dei contagiati che chiede assistenza e anche là ove il sistema sanitario sarebbe efficiente si manifesta in modo eclatante una delle contraddizioni dell’America Latina. E’ il caso del Cile che nel corso degli anni ’80, durante la dittatura di Pinochet, ha privatizzato il sistema sanitario ispirandosi al modello iper liberista degli Stati Uniti. Il risultato è che chi non ha i mezzi economici per pagare le spese sanitarie ne viene escluso. Proprio nell’autunno dell’anno scorso vi erano state manifestazioni di protesta in tutto il Paese per chiedere la riforma della Costituzione con l’obiettivo di riportare al settore pubblico la sanità, l’istruzione e il sistema pensionistico. Dopo due mesi di manifestazioni, anche violente al punto di proclamare il coprifuoco con l’intervento delle forze armate, il governo era sceso a patti accettando la proposta di un referendum da svolgersi nella primavera del 2020. Lo scoppio del coronavirus e il lockdown hanno però rinviato il referendum che forse si terrà in autunno. Nel frattempo chi non ha disponibilità economiche rischia di non godere del diritto all’assistenza sanitaria.

Il dramma maggiore è però in Brasile che risulta essere la seconda nazione al mondo sia per numero di contagi che per numero di decessi. In questa nazione il governo ha però precise responsabilità, perché nella fase iniziale il Presidente Bolsonaro aveva definito il coronavirus poco più di una influenza e quando la situazione è precipitata ha continuato e continua a rifiutare qualsiasi iniziativa di lockdown o forme di tutela della popolazione. Bolsonaro si è scagliato duramente contro quei governatori che, di propria iniziativa, hanno proposto il lockdown e l’uso delle mascherine (come per es. nello Stato di San Paolo o di Roraima). In due mesi Bolsonaro ha cambiato due ministri della Sanità che avevano contestato la politica del governo che pretende di lasciare libero il virus di agire negando la necessità da parte dei cittadini di far uso delle mascherine. A sostegno di queste posizioni, Bolsonaro ha partecipato a diverse manifestazioni pubbliche ostentando sempre il viso scoperto e incoraggiando i propri sostenitori a fare altrettanto. Solo dopo essere stato a sua volta colpito dal virus ha iniziato a mostrarsi in pubblico con una protezione, ma senza rinunciare alle proprie posizioni. Al fine di avere un Ministro maggiormente allineato Bolsonaro ha scelto un nuovo Ministro della Sanità, il terzo, l’ex generale Pazuello, un altro generale che si va ad aggiungere all’elenco di generali che già ricoprono incarichi in ministeri chiave del governo: al Ministero della Difesa, degli Interni, della Scienza, della Istruzione, nonché alla Vice presidenza e alla Segreteria di Stato. Non va poi dimenticato il fatto che Bolsonaro stesso prima di diventare Presidente era un capitano dell’esercito in pensione. Mai in nessun Paese al mondo si sono visti così tanti militari al governo senza aver compiuto un colpo di Stato. Un triste primato per l’America Latina.
 

Il dramma sanitario sta mettendo in evidenza un’altra delle contraddizioni dell’America Latina: si tratta della cosiddetta “economia informal”, una terminologia edulcorata e un po’ fantasiosa che però sta’ ad indicare quello che in Europa chiamiamo lavoro nero o sommerso. Si stima che siano 140 milioni i lavoratori che in America Latina non hanno un contratto di lavoro e di conseguenza non godono di alcun diritto in campo sanitario, sindacale, pensionistico. E’ evidente che l’economia informal favorisce lo sfruttamento e condanna milioni di lavoratori a vivere in condizioni di pura sopravvivenza sino alla fine dei propri giorni. Un ulteriore dramma nel dramma, poiché là ove i governi hanno dichiarato il lockdown da un giorno con l’altro, milioni di persone si sono trovate senza un lavoro e mezzi di sussistenza. E’ questa la situazione che si è venuta a creare in Bolivia, Perù ed Ecuador dove l’80% dei lavoratori sono accettati nella economia informal. Al dramma si aggiunge poi il paradosso, per esempio in Bolivia. Nella nazione andina vi è un governo provvisorio dalla fine del 2019, dopo che il Presidente Morales era stato costretto alla fuga da una rivolta popolare che lo accusava di aver violato la carta costituzionale. Il governo avrebbe dovuto gestire solo le nuove elezioni previste per lo scorso mese di marzo, ma si è ritrovato a dover gestire la pandemia rinviando le elezioni a data da destinarsi. Tra le iniziative previste il governo provvisorio ha messo a disposizione dei fondi per garantire un contributo a tutte le persone rimaste senza lavoro. Il paradosso risiede nel fatto che per avere il contributo bisogna disporre di un conto bancario che la maggioranza di chi lavora come informal non ha. La stessa situazione, ma con numeri impressionanti, si ha in Brasile. Anche qui il governo si è detto disponibile ad erogare una una tantum di 600 real (circa € 100) ai lavoratori rimasti fermi dal lockdown in alcuni stati della federazione. In Brasile questi lavoratori risulterebbero essere 50 milioni, ma le domande di sussidio sono state presentate da 90 milioni. Si evidenzia comunque come i numeri che vengono presentati dai governi siano alquanto aleatori, il che fa anche pensare che le cifre dichiarate a proposito dei contagi e dei decessi da coronavirus siano imprecisi e probabilmente nella realtà sottostimati, vuoi per una oggettiva difficoltà nel reperire informazioni corrette, vuoi per una scelta di tipo politico. Non è casuale, a questo proposito, che il Presidente Bolsonaro venerdì 5 giugno avesse imposto di non diffondere più dati riguardanti il coronavirus, specie dopo che alcuni oppositori e onlus avevano diffuso notizie allarmanti circa le conseguenze del coronavirus tra gli indios dell’Amazzonia. E’ dovuta intervenire la Corte Suprema del Brasile il 10 giugno per imporre al Ministero della Sanità di riprendere la diffusione pubblica e giornaliera dei contagi. Un segnale importante circa la volontà di alcune istituzioni di salvaguardare un minimo di stato di diritto, dal momento che Bolsonaro ha già estromesso dal governo, oltre a due Ministri della Sanità, anche il Ministro della Giustizia accusandolo di indagare su membri della propria famiglia, in particolare sui suoi figli coinvolti in casi di corruzione e reciclaggio di denaro. A chi lo ha accusato di violare la Costituzione abusando del proprio potere, ha pubblicamente dichiarato che “Io sono il Presidente e io sono la Costituzione”. Bolsonaro sembra così rimpiangere i tempi della Francia pre rivoluzionaria e del Re Sole. Molti suoi atteggiamenti trovano comunque un valido riscontro in quelli del Presidente Trump, di cui è un grande estimatore.

La pandemia ha acuito anche i contrasti in seno al Mercosur, il mercato comune nato nel 1991 che vede insieme Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay (vi sarebbe anche il Venezuela, ma al momento è sospeso a seguito della crisi politica interna). Non vi è stato modo di coordinare le politiche di controllo e gestione del virus tra le nazioni che hanno pertanto agito ognuna per proprio conto. Abbiamo già detto della situazione in Brasile, ma la chiusura dei confini da parte dell’Argentina che ha imposto il lockdown, ha bloccato nel Paese decine di migliaia di lavoratori immigrati o transfrontalieri paraguayani da metà marzo sino a metà aprile che oltre a non poter rientrare in patria non potevano neppure lavorare. Un caos che si è aggiunto al caos. E nel pieno della pandemia è ripresa nel mese di giugno una aspra conflittualità politica tra Argentina e Brasile a proposito della firma degli accordi commerciali tra Mercosur e India, Corea del Sud, Canada. L’Argentina si oppone in particolare all’accordo con la Corea del Sud, perché teme che questi accordi rappresentino una minaccia per la propria industria automobilistica. Il Brasile spinge invece affinché si siglino le intese commerciali anche senza la firma dell’Argentina. In base ai Trattati vigenti del Mercosur qualsiasi accordo commerciale deve essere votato alla unanimità da tutti gli Stati membri. Insistere nel firmare una intesa commerciale a maggioranza può significare la fine del Mercosur (come sottolineato non solo da parte della stampa argentina) oppure un suo sviluppo di cui è difficile prevedere il futuro. E’ però facile immaginare che un Mercosur senza l’Argentina, ma solo con Brasile, Paraguay e Uruguay (non è dato sapere che sarà del Venezuela) non avrebbe più alcun senso, sarebbe come se in Europa una nazione tra Francia e Germania decidesse di abbandonare l’Unione, ne sancirebbe la fine. La tensione sul tema degli accordi commerciali si aggiunge a quelli già in essere sorti in occasione dell’elezione del nuovo Presidente argentino Fernandez, una elezione che il Presidente Bolsonaro aveva cercato di osteggiare con una chiara ingerenza negli affari interni argentini sostenendo il desiderio di vedere la rielezione del Presidente uscente Macri (arrivò a dichiarare che Fernandez, un peronista dichiarato, era un comunista). Oltre alle polemiche con il Brasile, il governo argentino deve fronteggiare la crisi sanitaria e un’altra grave emergenza. In un contesto già complicato, il mercato finanziario mondiale teme l’ennesimo default di Buenos Aires che ha chiesto la revisione del piano di rientro dei prestiti con il FMI dopo non aver saldato la tranche del rimborso prevista per il mese di maggio. Le vicende finanziarie dell’Argentina sembrano non avere mai fine, il problema è che, come accaduto in passato, un nuovo default argentino non resterebbe un problema solamente locale e circoscritto. Il mondo ha bisogno di tutto fuorchè del default di una grande nazione in una fase già di per sé critica per l’economia mondiale.

Nessuna nazione e nessun governo del mondo era preparato a gestire questa pandemia. Molti, nei primi mesi, lo avevano classificato come una influenza particolarmente violenta: i morti e la escalation dei contagi  hanno poi aperto gli occhi ai più, anche se alcuni leaders, non solo in America latina, hanno rifiutato di intraprendere iniziative drastiche e questo è costato ulteriori vite umane.

La pandemia ha così messo in luce i ritardi della politica, ha alimentato le paure e l’insicurezza tra le genti. Molti leaders in difficoltà, per giustificare i propri errori o ritardi nell’agire, hanno mosso accuse a questa o quella nazione: trovare e creare un nemico è purtroppo un classico della politica. Un fatto evidente è comunque che vi sono problemi, come la pandemia sta dimostrando, che non possono essere affrontati e risolti da una singola nazione. L’Unione Europea sta reagendo cercando di definire una politica comune che sappia, nel presente e nel futuro, far fronte a sfide che, da sanitarie, diventano sfide sociali ed economiche. Ma in molte nazioni il sovranismo resta il faro della politica come le vicende latino americane stanno dimostrando, con alcune aggravanti. La crisi sanitaria sta evidenziando i ritardi di una regione ricca di risorse proprie, ma incapace di avviare politiche di giustizia sociale e di consolidamento della democrazia. La democrazia in quest’area sud del mondo è giovane, vi è arrivata solo dalla metà degli anni ’80 del secolo scorso. Certamente il progetto di integrazione del Mercosur ha dato una base per consolidare la democrazia, ma, come vediamo in Brasile, il populismo rappresenta una minaccia. Il mondo non guarda più al Venezuela, dove la crisi politica è diventata umanitaria con la fuga dal Paese di oltre 2 milioni di cittadini esasperati dalla miseria in cui l’ha gettata il populismo di Maduro. L’Argentina dagli anni ’80 in poi non ha saputo stabilizzare la propria economia perché ancora vittima dell’ideale peronista che, proprio del populismo, è stato un alfiere. In molte nazioni i governi accettano come normale che possa sussistere una economia informal che genera sfruttamento e ingiustizia sociale che a sua volta alimenta violenza, sollecitando alcuni leaders a guardare e a richiedere l’intervento delle forze armate per ristabilire l’ordine, come è accaduto l’autunno scorso in Bolivia e Cile. E poi vi è il Brasile che, se saprà reggere la presidenza Bolsonaro senza precipitare nell’autoritarismo, darà all’intero sub continente americano un segnale di speranza. Il rischio, altrimenti, è la sconfitta della democrazia con il ritorno al sovranismo esasperato delle dittature militari.

 

  

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