Il piano quinquennale cinese viene in un periodo storico estremamente delicato. Interessante e complicato al tempo stesso, data la congiuntura internazionale, la contrazione del prodotto interno lordo (determinata dalla grave crisi sanitaria che la Cina ha vissuto) e dalle sfide che già il sistema economico stava vivendo.

Obiettivo della Cina è il rilancio dei consumi interni e la gestione delle conseguenze dell’urbanizzazione degli ultimi anni, dell’inquinamento e, quindi, della produzione sostenibile.
Ma più di ogni altro aspetto la Cina dovrà capire come sostenere il largo e vasto settore manifatturiero. Si tratta di un’entità che va dalla produzione manifatturiera che abbraccia l’intera gamma della produzione industriale, dai settori classici, il vasto comparto tessile, ad esempio, ai settori ad alto contenuto tecnologico, come le telecomunicazioni e l’informatica.

Il piano quinquennale parla apertamente di dual circulation (doppia circolazione o di economia circolare) cioè la capacità del Paese di produrre e consumare. Per far ciò, è oltremodo necessario l’avvio di una politica dei redditi capace di garantire l’ingresso nel sistema economico di vasti settori della popolazione cinese, per il momento, escluse o solo marginalmente raggiunte dallo sviluppo economico degli ultimi dieci anni.

Un’economia che guarda anche al suo interno (e non solo alle esportazioni) può essere, in potenza, un sistema che reagisce meglio agli shock esterni, alle crisi di partner e competitor che possono mettere a repentaglio la crescita del Paese e la sua stabilità economica.
Non è un mistero, infatti, che Pechino abbia sofferto la guerra dei dazi con gli Stati Uniti, ma anche altri dossier come la diffidenza di molti partner sugli investimenti in materia di 5G.

Uno degli elementi da valutare (e che la pandemia ha sottolineato) è anche la necessità di migliorare la qualità della vita dei cinesi, in una fase storica dove, misere condizioni di vita, possono avere un peso decisivo sulla perdita di consenso della classe dirigente cinese.

Nonostante la direzione apparentemente “autarchica”, la proiezione verso l’esterno, rimane un elemento fondamentale della politica economica e della politica estera cinese. Tutto ciò è dimostrato dalla conferma degli investimenti internazionali legata alla c.d. Belt and Road Initiative, il progetto infrastrutturale che sta ridisegnando le infrastrutture in Eurasia, ma anche dalla difesa del principio della “porta aperta” contro l’isolazionista Donald J. Trump.

A dimostrazione di tutto ciò, è il tentativo da parte di Cina ed Unione Europea di assicurare le proprie relazioni economiche in un accordo strutturato.

Infatti, l’Unione e la Repubblica Popolare stanno accelerando la conclusione di un BIT, cioè di un accordo bilaterale sulla promozione e la protezione degli investimenti.
Tale accordo, è il principale strumento di protezione degli investimenti stranieri e consente una protezione effettiva dell’investitore estero e dei suoi beni nel territorio della controparte con la previsione, in caso di controversie, di un lodo arbitrale.
Si tratta di uno strumento importante, duttile che, elemento non marginale, viene negoziato dall’Unione Europea a nome del proprio spazio economico e politico.

Il negoziato, in corso da sette anni, parte dalla convinzione che lo status quo non sia accettabile, in particolare per le controparti europee.
Molti sono, infatti, i BIT esistenti tra la Cina e l’Europa conclusi dai diversi paesi europei (Francia, Finlandia, etc.). Tali accordi salvaguardano gli investimenti ma non forniscono garanzie sull’apertura dei mercati, né della necessaria protezione agli investimenti stranieri oltre alle garanzie di sostenibilità che l’Europa pretende nei confronti del partner cinese.

L’accordo, tuttavia, nel quadro del BIT stabilirà un CAI (Comprehensive Agreement on Investments) che oltre ai parametri già inclusi nel BIT prevede dettagli in merito al Trattamento nazionale, alle esclusioni (Negative List) che tengono conto della neutralità competitiva delle imprese statali.

Le due parti stanno limando la convenzione, in particolare sulle esclusioni che riguardano l’accesso, ad esempio, alle zone interne di libero scambio cinese.
Ma altre questioni sono aperte: la reciprocità è il problema principale.

Le imprese europee non hanno il medesimo trattamento assicurato alle imprese cinesi nell’Unione europea. Ma a preoccupare gli Europei sono la tutela dell’ambiente, le condizioni di lavoro e le norme che tutelano la proprietà intellettuale in Cina.
Gli accordi separati, inoltre, conclusi da Pechino con i Paesi dell’Europa Centrale e Orientale (anche nell’ambito della Belt and Road Initiative) hanno creato risentimento a Bruxelles.
Tra le difficoltà nel negoziato, non vanno dimenticate le preoccupazioni europee per il trattamento delle minoranze nello Xinjiang e per le perduranti tensioni ad Hong Kong.

La volontà delle parti di pervenire ad un accordo ha, tuttavia, superato molti degli ostacoli esistenti e le buone relazioni tra l’Europa e la Cina hanno facilitato questo compito.
Le parti condividono l’obiettivo di concludere il negoziato tra la Cina e l’Unione Europea entro il 2020. Il nuovo BIT sostituirà tutti i 26 accordi esistenti tra RPC e UE.

Va altresì ricordato l’impegno dell’Europa a trovare uno sbocco alla propria capacità produttiva in Cina e a sfruttare, con reciproco vantaggio, i forti investimenti in Ricerca e Sviluppo, l’interesse cinese per i marchi occidentali, per la moda europea, per le produzioni di alta qualità, ma anche per le sinergie che possono mettersi in atto nei settori-chiave delle infrastrutture, sia in Cina sia nel continente europea, anche alla luce dell’impegno cinese nella costruzione di una nuova rete infrastrutturale in Eurasia, all’interno della Belt and Road Initiative.

D’altro canto, gli scambi internazionali tra i due giganti commerciali, nonostante il contesto delicato della Pandemia, sono rimasti sostenuti, basti pensare che nel primo semestre del 2020, mentre gli scambi con gli USA hanno subito una contrazione, sono cresciuti quelli con la Cina (quasi 600 mld di USD). Sostenute anche le esportazioni europee in Cina (quasi 200 mld USD). Ad oggi, secondo i dati EUROSTAT, la Cina è il principale partner commerciale dell’Unione europea.

Rimangono, tuttavia, alcuni dubbi sulle effettive volontà della Cina di aprire alcuni settori alle imprese europee e alcune criticità dovute al regime giuridico delle imprese estere. Il contesto della pandemia e la crisi con gli Stati Uniti potrebbero, in potenza, creare una variazione del quadro negoziale che porterebbe ad una positiva conclusione del Trentunesimo round di colloqui tra i rappresentanti dell’UE e della Repubblica Popolare Cinese.

Altri motivi di preoccupazione sono legati al trattamento delle imprese cinesi in Europa, alla questione della riservatezza delle comunicazioni (rete 5G, in primis).
Alcuni commentatori suggerirebbero, pertanto, cautela nella conclusione dell’accordo, ma da parte di Parigi e Berlino, in particolare, si preme per la conclusione del negoziato in una data simbolica (è in corso, infatti, il 45° anniversario delle relazioni diplomatiche tra UE e Cina) e in una fase dove la crescita economica è la principale prospettiva dei 27 all’uscita della pandemia e, per la Cina, vi è la necessità di consolidare i suoi rapporti economici con l’Occidente in una fase in cui non è ancora chiara la risposta che Washington deciderà di dare alle relazioni bilaterali, politiche e commerciali, con Pechino.

  

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