Civili feriti trasportati in ospedale

L’intervento militare in Siria del 14 aprile scorso, da parte di Stati Uniti, Regno Unito e Francia, è stato, innanzitutto, una grande manifestazione d’ipocrisia. Ipocrisia che coinvolge anche l’UE e i suoi governi, compresi Berlino e Roma.

Ciò che è volutamente mancato nella detta azione militare, e nelle posizioni assunte dai paesi UE, è l’obiettivo strategico di arrestare la guerra civile e il conflitto internazionale che da anni distrugge il paese mediorientale. D’altra parte non poteva essere altrimenti, poiché, come sempre, l’obiettivo della pace passa attraverso un progetto politico e non attraverso le semplici azioni militari. Il nodo, irrisolto al momento, è che nessuno ha la forza per imporre un progetto politico di pace per la Siria e, in generale, per il Medio Oriente. Infatti, è noto a tutti che intorno al conflitto siriano ruota la sfida per l’egemonia nell’area tra Arabia Saudita, Emirati Arabi e Israele, alleati storici degli Stati Uniti, da un lato, e l’Iran, sostenuto dalla Russia, dall’altro lato. La posta in gioco è il controllo della produzione d’idrocarburi dell’area, sfida alla quale non è estranea la Russia, che vorrebbe aggiungere al controllo del proprio rilevante rubinetto quello delle risorse del M.O. Ma, l’UE non sembra accorgersi di tale minaccia.

Date tali premesse, l’intervento militare è stato studiato e portato a termine da parte dei tre alleati occidentali con la chiara intenzione di presentarlo all’opinione pubblica internazionale come una decisa azione punitiva nei confronti del regime di Bashar al Assad colpevole di avere superato a Douma, il 7 aprile scorso, la “linea rossa” dell’impiego di armi chimiche. Nella sua reale esecuzione, il raid è stato invece un intervento militare circoscritto, diretto a non provocare reazioni irreparabili da parte di Mosca. La grande azione punitiva, promessa dal Presidente USA Donald Trump contro il dittatore di Damasco, si è risolta con la distruzione di alcuni impianti ritenuti centri di studio e di produzione di armi chimiche per l’esercito governativo siriano. Obiettivi, peraltro, preannunciati dallo stato maggiore USA a quello russo. Infatti, il raid, debitamente segnalato nei tempi e negli obiettivi da colpire, non ha provocato vittime tra i siriani, né tra gli iraniani e i russi presenti in Siria.

Pertanto, e in secondo luogo, il raid è stato soprattutto e solo un’azione dimostrativa, apparentemente rivolta a rilevare la volontà del presidente Trump e dei suoi alleati britannici e francesi di non tollerare “colpi bassi” nel conflitto siriano in risposta alle sollecitazioni dell’Arabia Saudita e di Israele per un deciso impegno diretto degli Stati Uniti contro il regime di Damasco e soprattutto contro i suoi alleati iraniani. Non è la prima volta, infatti, che l’impiego delle armi chimiche è denunciato come “casus belli” per sollecitare Washington a intervenire nel conflitto. Accadde già nel 2013 ma il presidente Obama riuscì a schivare la trappola concordando con Mosca la consegna degli arsenali chimici da parte di Damasco. Oggi, anche il presidente Trump ha schivato la sfida: ha tuonato per dare poi una risposta soft al problema.

Si può anche aggiungere che l’impiego delle armi chimiche da parte del governo di Damasco nel 2013 e nel recente passato non è mai stato provato con sicurezza. Anche nell’ultimo caso, sorge il sospetto che l’impiego delle armi chimiche sia stato orchestrato dall’Arabia Saudita per sollecitare l’intervento americano, poiché essa si sente sconfitta in Siria ed é in forte difficoltà in Yemen contro la fazione filo iraniana della popolazione locale. Va a proposito ricordato che nei mesi passati Trump aveva chiaramente affermato, di fronte alle pressioni saudite per un intervento degli Stati Uniti contro Assad e i suoi alleati in Siria, che essa avrebbe dovuto pagarselo. Inoltre ha annunciato il ritiro delle proprie truppe dal M.O. Va aggiunto che le petromonarchie del Golfo e ovviamente Israele sono vivamente preoccupate per il possibile sviluppo a fini militari del nucleare iraniano e giudicano negativamente l’Accordo raggiunto nel 2015 dal Gruppo 5+1 (USA, Regno Unito, Francia, Russia, Cina e Germania). Appare quindi chiaro che l’annunciata denuncia dell’accordo da parte degli Stati Uniti farebbe parte del prezzo pagato ad Arabia Saudita e Israele per il mancato intervento militare diretto nel conflitto siriano.

Date tali premesse, è evidente che l’intervento del 14 aprile non era certamente diretto a sciogliere il vero nodo del conflitto siriano e a ristabilire la pace nel Vicino Oriente per la sua evoluzione civile e democratica. Problema questo che rimane aperto dalla fine della prima Guerra Mondiale, a seguito degli Accordi segreti Sykes-Picot del 1916 con i quali i due diplomatici, il primo britannico, il secondo francese, definirono per conto dei loro governi le rispettive aree di influenza nel Vicino Oriente in previsione della sconfitta dell’impero ottomano che al tempo governava Damasco, Bagdad, Gerusalemme e la penisola arabica. Accordi che poi dettero luogo ai mandati internazionali della Società delle Nazioni che riservarono alla Francia il controllo della Siria e al Regno Unito quello dell’area comprendente l’attuale Iraq, la Palestina e la penisola arabica. Gli inglesi avevano al tempo due obiettivi: a) bloccare a fini militari l’accesso degli Imperi Centrali al golfo Persico, prossimo all’India, data la costruzione allora in corso della ferrovia Berlino Bagdad, con possibilità di prolungamento al porto di Bassora e b) mettere le mani sulle risorse petrolifere dell’area di cui avevano capito la presenza dopo l’estrazione del petrolio in Persia nel 1908.

La storia successiva del Medio Oriente è quindi dominata dalla presenza coloniale e post coloniale delle grandi potenze occidentali diretta a impedire l’affermazione in Siria, in Iraq e in Iran di governi indipendenti orientati alla nazionalizzazione delle risorse petrolifere a fini di sviluppo interno. Esemplare, sotto quest’aspetto, fu il colpo di stato, organizzato dai servizi segreti angloamericani contro il premier iraniano Mossadeq nel 1953, reo di avere nazionalizzato l’estrazione del petrolio e di avere esiliato lo Sha filoccidentale Reza Palhavi. Costui fu ripristinato sul trono e il petrolio iraniano finì sotto controllo anglo-americano fino alla rivoluzione degli Ayatollah del 1979.

Per concludere si può affermare che dalle recenti vicende escono ridimensionati nella loro credibilità politica il presidente statunitense Trump, il presidente francese Macron e la stessa Unione Europea. Non certo la premier May che ha solo confermato la scelta servile del Regno Unito nei confronti degli USA.

Trump ha annunciato forti azioni risolutive, rivolte a riaffermare il ruolo USA di gendarme mondiale, ma poi, prendendo atto dei propri limiti, ha misurato l’intervento per non scontrarsi con Mosca. Macron ha voluto partecipare al raid invece di prendere le distanze dagli Stati Uniti e promuovere una posizione europea autonoma. Secondo alcune interpretazioni, Macron ha voluto sottolineare all’alleato di oltre atlantico che, dopo il Brexit, lui è l’unico e affidabile interlocutore europeo al fine di avere un giorno un posto al tavolo per la pace in Siria, regione storicamente al centro degli interessi francesi. Il Consiglio dei ministri degli esteri dell’Unione Europea, a sua volta, con la dichiarazione del 16 aprile, che accoglie anche le posizioni di Berlino e di Roma, ha solo ribadito la propria incapacità d’intervento, formulando appelli generici alla pace senza avere un piano, del peso politico necessario e delle risorse per portare al tavolo del negoziato tutte le parti in causa e garantire, anche con presidi militari, un processo comune di sviluppo civile e democratico dei paesi arabi e la loro riconciliazione con Israele.

  

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