Con la globalizzazione è tornata d’attualità la grande questione, messa in luce da Lewis Mumford nel secolo scorso, del ruolo della città nel processo di crescita e avanzamento della civiltà ed è venuta la risposta alla domanda che è alla base della sua opera, e cioè se l’evoluzione urbana, partita da una città che era, simbolicamente, un mondo, si sarebbe conclusa con un mondo “diventato, per molti aspetti politici, una città”.

L’analisi di Mumford costituisce non solo un approfondimento dell’intuizione di Adam Smith, secondo il quale “la causa del progresso nelle capacità produttive del lavoro, nonché della maggior parte dell’arte, destrezza e intelligenza con cui il lavoro viene svolto e diretto, sembra sia stata la divisione del lavoro”, ma ha integrato e contribuito a chiarirla. Questo perché l’intuizione di Smith sui fattori che hanno influito sulla produttività spiega perché l’andamento della produttività storicamente sia stata e resti così diversa nel tempo e nello spazio e perché alcune città e regioni siano diventate più ricche e centrali di altre. Ma essa non spiega che cosa c’è alla base del processo di ascesa e di declino delle economie-mondo a dominazione urbana, né il ruolo che alcune città hanno avuto ed hanno nel promuovere lo sviluppo nell’ambito degli Stati. Sviluppo che, come avrebbe invece ben spiegato Lewis Mumford, è diverso per una città-Stato del XV secolo, quale Venezia per esempio, rispetto a una città del XVIII secolo come Londra, cioè “dell’enorme città che dispone(va) di tutto il mercato nazionale inglese, e quindi delle isole britanniche, fino al giorno in cui, essendo mutate le proporzioni del mondo, questo agglomerato di potenza non si è ridotto alla piccola Inghilterra” di fronte ad un sistema urbano e politico continentale come quello degli Stati Uniti.

La globalizzazione sta mettendo ogni individuo ed ogni istituzione di fronte ad un paradosso. Quello secondo il quale la democrazia, la sovranità nazionale e l’integrazione economica globale diventano mutualmente incompatibili, in quanto “anche combinando due tra di esse, non potremo mai più averle tutte e tre completamente”. Questo paradosso rende difficile colmare il deficit democratico nel governo delle cose e non serve a contrastare il crescente indebolimento della legittimità delle istituzioni un po’ in tutti i continenti e su scala mondiale, alimentando l’inefficienza e l’instabilità sociale e politica che sono alla base delle crisi di legittimazione delle istituzioni a livello mondiale, continentale, nazionale e locale. Crisi alle quali si è finora cercato di rispondere riaffermando, anziché cercando di superare, la centralità del funzionamento dello Stato nazionale, cioè dell’ultima grande innovazione istituzionale adottata dall’umanità per governare il territorio ed il destino delle comunità locali. Un paradosso che, pur riconoscendo che l’equilibrio delle forze globali sta diventando sempre più centrifugo, in un mondo in cui gli USA stanno perdendo il loro ruolo a livello mondiale, e dove l’Europa resta prigioniera delle resistenze dei suoi Stati a dotarsi di un governo continentale efficace, ripropone per molti la necessità di recuperare la sovranità su scala nazionale, o addirittura a livello inferiore. Un problema questo rimasto finora senza soluzione, nonostante i contributi forniti da Smith, Mumford, Braudel sulla centralità del ruolo delle città nello sviluppo della civiltà.

Per questo resta attuale domandarsi come sta cambiando la dimensione urbana, e quali sono le caratteristiche della città che, nei loro aspetti sociali, politici ed economici, hanno determinato e continuano a determinare lo sviluppo ed il benessere delle società. Storicamente il continente in cui questo processo è nato e resta più radicato è quello europeo, e ciò costituisce una sfida storica oltre che politica per coordinare gli strumenti di governo del territorio e dell’economia dal livello locale a quello continentale e sovranazionale: una sfida istituzionale che può essere affrontata solo adottando i principi federali. Per questo resta attuale il problema di studiare lo sviluppo dei sistemi urbani in relazione a quello delle istituzioni su cui si è basato e si basa il governo del territorio e della società .

Le città sono rimaste appannaggio di conoscenze specialistiche (urbanistica, pianificazione urbana e rurale, architettura e design urbana, antropologia e sociologia), senza che queste conoscenze abbiano sviluppato idee e strumenti di indagine e pianificazione specifici "l'economia incentrata sulle leggi della ricchezza, della produzione e della distribuzione, anche quando si è fermata a considerare le differenze spaziali e le dinamiche territoriali, non si è chiesta se le questioni della concentrazione urbana- cioè l'agglomerato di imprese, istituzioni, infrastrutture, competenze e know-how nelle città potessero rappresentare un'occasione per un ripensamento dei suoi assunti di base” (Ash Amin , Il Mulino, 3 /17 n. 491, pag. 361 ). A titolo di ipotesi si potrebbero individuare, come livelli di autogoverno, il quartiere, il comprensorio, la regione, un livello intermedio, che potremmo chiamare macro-regione, la nazione, il continente e, in prospettiva, il livello planetario. Sul piano istituzionale, vale la pena rifarsi alle considerazioni ed alle analisi tratte da Francesco Rossolillo in Città, territorio e istituzioni .

Infatti, da tutto quanto detto deriva l’opportunità di adeguare l’articolazione costituzionale della federazione alla struttura che tende spontaneamente ad assumere la distribuzione dei luoghi centrali, e dei relativi territori, in assenza di fattori perturbanti. Il che significa che i territori dei livelli di autogoverno localizzati ai margini dei territori dei livelli immediatamente superiori non dovranno essere delimitati in modo da essere interamente compresi in uno di essi, bensì in modo da intersecarne due o più. In tal modo questi territori passeranno dallo status di periferia a quello di cerniera: assumeranno cioè il ruolo attivo ed evolutivo di aree di giunzione e di scambio tra due o più ambiti territoriali di ordine superiore. Se, per far un esempio, ipotizzassimo l’esistenza, in un quadro federale europeo o mondiale, di una regione Sicilia e di una regione Calabria, il territorio di Messina e quello di Reggio dovrebbero costituire un solo comprensorio, la cui funzione è resa di immediata evidenza dall’opportunità di gestire con criteri coerenti i problemi connessi con l’esistenza dello stretto. Ad analoghe conclusioni si potrebbe giungere con riferimento ad una ipotetica macro-regione che comprendesse tutti i territori rivieraschi del Reno. E così via.

In un simile sistema, la soluzione del problema della ripartizione del gettito delle imposte non può essere affidata né ad un singolo livello di governo né alla competizione tra i livelli, ma ad un organo – o a un meccanismo – che abbia i requisiti della neutralità rispetto ai diversi livelli di autogoverno (il che garantisce che il perseguimento da parte sua dell’interesse generale non sarà turbato da considerazioni di potere), della democraticità (in quanto la ripartizione delle imposte è la condizione della realizzazione del piano e quindi, data la sua preminente importanza politica, non può essere affidata ad un organismo tecnico) e della elasticità (in modo da poter facilmente adattare la ripartizione degli strumenti finanziari ai mutamenti del piano resi di volta in volta necessari dall’evoluzione della congiuntura economica e politica, dall’innovazione tecnologica, dalle calamità naturali ed altro ancora).

Nessuna riforma istituzionale europea potrà ignorare gli aspetti che riguardano il coordinamento tra livelli di governo dalla città al continente.

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