Il problema del controllo del flusso di migranti è diventato un tema cruciale nel dibattito politico europeo. Da un lato, a fronte alla crescita incessante dei flussi in arrivo, il governo italiano - e i sindaci delle località dove si concentra il maggior numero di sbarchi - sottolineano l’impossibilità di offrire un’accoglienza civile  e che altresì non susciti reazioni di rigetto da parte della popolazione locale. Ma, al contempo, gli altri paesi europei rifiutano ostinatamente di accogliere le navi nei loro porti, distinguendo fra rifugiati politici, che possono essere accolti, e migranti economici, che devono essere rispediti nel paese di provenienza. E la giustificazione che viene prodotta è che il problema dei migranti economici deve essere risolto a casa loro.

In questa affermazione c’è evidentemente una notevole dose di ipocrisia, ma vi è pure un nucleo di verità. Come ha sostenuto anche Bill Gates, che da anni si batte per aiutare i paesi del Terzo e del Quarto Mondo, non è possibile accogliere civilmente tutti coloro che, in modo disordinato, decidono di venire in Europa; ma, d’altro lato, per evitare le migrazioni di massa che comunque l’Europa si deve aspettare nei prossimi decenni se non cambieranno le condizioni attuali, occorre avviare una politica radicalmente diversa e impegnativa, che presuppone non soltanto la disponibilità a sostenere le sviluppo nei paesi mediterranei e sub-sahariani con enormi quantità di risorse, ma anche l’avvio di una politica estera capace di garantire le condizioni di sicurezza e di stabilità politica che rappresentano il pre-requisito di una qualsivoglia politica di sviluppo.

Nonostante tutte le difficoltà è un fatto che lo sviluppo in Africa è un processo ormai avviato. Il tasso di crescita reale è più che duplicato, da circa il 2% fra il 1980 e il 1990 a più del 5% fra il 2001 e il 2014. Nel 2015 si è registrata una leggera diminuzione rispetto all’anno precedente (dal 3,7% al 3,6%), nel 2016 la crescita rimarrà più o meno invariata, ma nel 2017 si rafforzerà fino al 4,5%. La flessione del 2015 è imputabile all’indebolimento della domanda mondiale e alla riduzione dei prezzi internazionali delle materie prime, ma nonostante questa flessione il continente africano rimane la seconda economia mondiale in termini di crescita.

Ci sono molti fattori che possono favorire la crescita dell’economia africana. L’Africa dispone di una forza lavoro ampia e giovane, un asset importante in un mondo che invecchia. Una popolazione in età lavorativa che si espande è generalmente associata ad alti tassi di crescita del Pil. Ma l’occupazione di questa forza lavoro dipende in larga misura dalla capacità dei paesi africani di sfruttare pienamente le enormi potenzialità di  un progresso tecnologico che cresce in misura esponenziale. Questa capacità a sua volta è legata strettamente a un forte aumento delle spese destinate alla formazione di capitale umano. Le Nazioni Unite stimano che nei prossimi vent’anni 60 milioni di giovani cercheranno un’occupazione, e quindi dovranno essere formati per trovare un lavoro, mentre 75 milioni di cittadini si urbanizzeranno, e avranno quindi bisogno di nuove abitazioni. Un altro fattore di crescita è rappresentato dal fatto che l’Africa possiede il 60% a livello mondiale delle terre coltivabili, ma non ancora utilizzate, e le più estese riserve di risorse minerarie.

Lo sfruttamento di questo potenziale di sviluppo è impedito in larga misura dalla mancata disponibilità degli investimenti necessari, in particolare per colmare il gap infrastrutturale. 600 milioni di Africani, ossia circa la metà della popolazione del continente, non dispongono di elettricità e di illuminazione  L’Unione Africana ha creato un’Agenzia per l’elettrificazione, che ha elaborato un piano per raggiungere l’obiettivo di una completa elettrificazione del continente in 10 anni. La realizzazione di questo piano richiederebbe un aiuto finanziario da parte dell’Unione europea di 5 miliardi di dollari per 10 anni, e questi finanziamenti sarebbero sufficienti per generare un effetto leva sugli investimenti privati fino a raggiungere i 250 miliardi di dollari necessari per realizzare il piano di elettrificazione.

300 milioni di Africani non hanno accesso all’acqua pulita e solo il 5% della terra coltivabile è irrigata correttamente. Ma sotto il suolo arido di gran parte del territorio africano sono disponibili ampie riserve idriche: secondo uno studio recente della British Geological Survey e dello University College di Londra, le riserve d’acqua sotterranee sono 100 volte più ampie del volume di acqua disponibile al di sopra del terreno. La disponibilità di risorse idriche potrebbe essere ulteriormente accresciuta attraverso un uso accresciuto dei nuovi impianti di desalinizzazione, tecnologicamente assai avanzati. L’impianto Sorek, costruito nel 2013 nel distretto di Tel Aviv e costato 400 milioni di dollari, ha una capacità annuale di 150 milioni di metri cubi d’acqua  e da solo fornirà il 20% del consumo totale domestico in Israele. Questa opportunità potrà essere sfruttata se saranno finanziati gli investimenti necessari per costruire questo nuovo tipo di impianti e se l’elettricità che deve essere utilizzata per il funzionamento degli impianti stessi verrà garantita grazie a un flusso consistente di investimenti per la produzione di energia solare.

Lo European Fund for Sustainable Development, il braccio operative dello European Investment Plan proposto dalla Commissione nel settembre 2016, dovrebbe garantire una mobilitazione di fondi pubblici e privati per attivare €88 miliardi di investimenti, destinati a sostenere  la fornitura di energia e di risorse idriche e le spese per la formazione di capitale umano, che  rappresentano gli elementi essenziali di un piano per una crescita sostenibile dell’economia africana. Ma la realizzazione di questo Piano per l’Africa si fonda su prerequisiti politici irrinunciabili. Il primo è il ristabilimento di condizioni di stabilità politica e di sicurezza in quei paesi africani da cui originano principalmente i flussi migratori, e questo dovrebbe essere l’obiettivo prioritario di una rinnovata politica estera dell’Unione lungo le linee delineate nella nuova Global Strategy for the EU proposta da Federica Mogherini,  Alto Rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri e per la Politica di Sicurezza.  A sua volta, per avere successo, il piano di sviluppo dovrà essere gestito attraverso un’organizzazione regionale, che includa i paesi mediterranei e dell’Africa Sahariana e Sub-sahariana - cui spetterà il compito di elaborare le linee fondamentali del piano e di scegliere gli  investimenti da realizzare - e che agisca in stretto collegamento con l’Unione europea.

La soluzione futura del problema delle migrazioni dipende quindi in larga misura dalla capacità dei paesi africani, da cui originano principalmente i flussi migratori, di avviare un processo di crescita che offra un lavoro dignitoso soprattutto alle nuove generazioni e garantisca alla maggioranza della popolazioni di uscire da condizioni di povertà estrema. Ma la responsabilità principale per il successo di questa politica dipende dall’Europa, che dovrà fornire i capitali necessari per finanziare investimenti e formazione, e assicurare al contempo condizioni di stabilità politica e di sicurezza ai paesi interessati dal piano.

Accanto al problema dei migranti economici rimane poi il problema dei rifugiati politici, in particolare provenienti dalle aree del Medio Oriente dove imperversa la guerra e il terrorismo. Anche in questo caso la responsabilità maggiore spetta all’Europa. Non è compito degli Stati Uniti, e non lo sarà ancor di più sotto la Presidenza Trump, garantire la pace e la sicurezza in questi paesi. Ma se l’Europa vorrà giocare il ruolo che le spetta per ragioni storiche e geo-politiche dovrà dotarsi non soltanto delle risorse necessarie e di una capacità di decisione in materia di politica estera, ma altresì di una capacità di intervento militare per ristabilire condizioni di pace e di sicurezza.

Tutto questo appare ancora come un miraggio data la struttura istituzionale ereditata dal Trattato di Lisbona. Se si vuole uscire dalle polemiche sterili sul problema delle migrazioni occorre che i paesi membri dell’Unione e le forze politiche e sociali si impegnino, anche in vista delle prossime elezioni europee, a definire un progetto di riforma delle istituzioni dell’Unione capace di garantire capacità di decisione e garanzie democratiche dei processi decisionali per promuovere un futuro migliore non solo per gli europei, ma anche per gli abitanti dei paesi mediterranei e africani devastati dalla guerra e dalla povertà.

Alberto Majocchi

  

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