Crisi finanziaria e crisi della sicurezza (rifugiati, migranti, minaccia terroristica) hanno messo in evidenza tutte le debolezze della struttura istituzionale europea.

L’Unione Europea è il frutto di settant’anni di compromessi che hanno dato vita ad un organismo strano. Non è una federazione compiuta, anche se alcune funzioni collettive strategiche (come la politica monetaria) sono ormai demandate ad un organo sovranazionale federale, la BCE, che è autonoma ma che compie scelte non perfettamente e puramente indipendenti da obiettivi politici, come si è potuto vedere di recente con la politica del quantitative easing. E non è una confederazione di stati indipendenti e sovrani, perché gli Stati nazionali hanno una serie di vincoli, più o meno espliciti, nell’esercizio della propria sovranità. Questo compromesso istituzionale ha resistito nel tempo perché i destini del mondo erano affidati ad un delicato equilibrio di potere fra le due superpotenze, che permettevano all’Unione di fare una “politica dei piccoli passi” senza che questa lentezza nell’adeguarsi ai cambiamenti intorno a noi fosse avvertita come un “problema”.

Le crisi, economica prima e della sicurezza poi, hanno modificato radicalmente questo quadro, rendendo improvvisamente manifesta l’inadeguatezza e la debolezza del compromesso di potere raggiunto nella UE a fronte di forti esigenze di capacità decisionale collettiva. Questa “crisi nell’esercizio della sovranità” diviene più drammatica quando il cittadino sente forte la necessità che qualcuno si faccia carico di bisogni che da solo non riesce a risolvere, come avere una prospettiva di lavoro e potersi muovere liberamente sul territorio senza rischi per la propria vita.

Da quando, nel 2010, la crisi finanziaria Usa si è trasformata in una crisi dei debiti sovrani nella zona euro, i governi europei hanno reagito con colpevole ritardo e col metodo sbagliato, quello intergovernativo. Senza comprendere che quel metodo, oggi, è totalmente inutile ed è arrivato al capolinea. Perché è un metodo che lascia scoperto il cittadino proprio nell’esercizio della sovranità, del potere, della capacità di fornire risposte concrete e soddisfare bisogni condivisi.

Per questo si stanno diffondendo i (ri)sentimenti anti-europei: se l’Europa non riesce a rispondere alle esigenze dei cittadini europei, non rimane che sperare di poter tornare indietro, chiedendo protezione e sicurezza e prospettive ai propri governi nazionali. Da qui le richieste crescenti a favore del protezionismo, delle chiusure, la xenofobia, il nazionalismo, il ripristino di barriere, di confini, di dogane. Sarebbe errato liquidare queste richieste come folli. Si tratta di richieste perfettamente legittime, proprio perché nascono da legittime aspirazioni dei popoli europei che di fronte ad una crisi nell’esercizio del potere non trovano una capacità di agire a livello europeo e sperano di ritrovarla a livello nazionale. Anche su queste fondamenta si basa, negli ultimi anni, il ritorno a Keynes e ai suoi precetti di espansione della domanda interna che alcuni vorrebbero applicati in un contesto di isolamento dai vincoli internazionali (il Keynes degli anni Trenta) oppure, se non fosse ancora troppo tardi, sulla base di una semplice cooperazione internazionale (il Keynes degli anni Quaranta).

Aspirazioni legittime, dicevamo. Ma certo anche anacronistiche. E oltretutto pericolose, perché innescherebbero una non prevedibile spirale di sentimenti di chiusura che potrebbero mettere in discussione l’intero processo di integrazione europea faticosamente conquistato all’indomani del secondo conflitto mondiale.

Il mercato che si regola da solo, che produce risultati virtuosi in termini di allocazione efficiente delle risorse, di distribuzione del reddito e di stabilità macroeconomica è una chimera. Così come è una chimera pensare che oggi la dimensione degli Stati nazionali (almeno quelli europei) consenta di raggiungere quegli obiettivi per via dirigista.

Se vogliamo ritornare a Keynes, almeno ricordiamoci che la più importante lezione che ci ha lasciato è che il sistema capitalista è fondamentalmente instabile e si regge in massima parte sulle aspettative. E che le aspettative, quelle positive che generano fiducia nel futuro e da cui dipendono investimenti privati e pubblici, consumi, riconversioni produttive orientate all’innovazione e via di seguito, non si formano virtuosamente sul mercato lasciato in mano alle forze delle lobbies economiche, né si governano per decreto legge.

Le aspettative sono un complesso e delicato meccanismo che dipende dalla credibilità e dalla coerenza delle azioni intraprese e dalla possibilità percepita di realizzarle. Se un paese annuncia di voler far ripartire la domanda con un programma di lavori pubblici, nel contesto delle regole della governance economica europea (two pack, six pack, fiscal compact, etc) non è credibile perché non è in grado di decidere autonomamente la dimensione degli investimenti, il livello del debito pubblico, la stessa qualità della spesa pubblica. Se un governo annuncia di voler affrontare il problema della sicurezza ripristinando le frontiere non è credibile, perché gli unici che riescono a passare i confini sono proprio i terroristi e, in più, la maggior parte di essi è già residente nei paesi europei, come abbiamo visto.

Così come non è credibile nemmeno che la ripresa venga affidata unicamente alla politica monetaria. Anche su questo Keynes ave-va ragione. Quando le aspettative sono negative, un’espansione monetaria determina la “trappola della liquidità”, ossia una iniezione di liquidità nel sistema bancario che rimane inutilizzata in attesa di qualche ragionevole prospettiva sul futuro. La politica dei tassi negativi, accompagnata da strumenti di politica monetaria non convenzionali, può abbassare il tasso d’interesse sui titoli del debito pubblico, ma non convincere gli imprenditori ad effettuare investimenti rischiosi e a lungo termine, se non hanno fiducia nel futuro, né convincere le banche a finanziarli.

Ecco l’impasse in cui oggi ci troviamo. Nessuno è più in grado di dare fiducia nel fu-turo a questa Europa, perché nessuno è in grado di esercitare il potere necessario per farlo. Che cosa allora è credibile oggi in Europa? Quali sarebbero i possibili scenari per una ripresa della fiducia?

Anche il messaggio ipocrita dei nostri politici, secondo cui i nostri governi non possono far niente e che la soluzione spetta all’Europa, salvo poi esimersi da cedere all’Europa il potere per agire, è un gioco che non funziona più. L’unica cosa che dovrebbero fare i governi nazionali è cedere il loro potere a chi può esercitarlo. Ma come sappiamo bene, questo non accadrà mai per via volontaria. Almeno non con i leader che oggi ci ritroviamo.

Per questo è così importante che la “generazione Erasmus” si faccia “soggetto politico”, nel senso di una sua capacità di lanciare un messaggio forte, in controtendenza rispetto a quello populista e nazionalista. Un messaggio che metta in evidenza le carenze insanabili del modello di integrazione intergovernativo e l’assurdità di voler mantenere la natura asso-luta ed esclusiva della sovranità nazionale. Che faccia propria l’idea di una sovranità divisa e condivisa sulla base di un modello federa-le, esercitando il potere al livello al quale è efficace. Se la crisi dei rifugiati e dei migranti non può essere affrontata da ciascun singolo stato nazionale in modo autonomo, non ci sono alternative: serve una politica europea. Se nessuno stato europeo è singolarmente in grado di mettere in piedi un piano credibile di finanziamento di infrastrutture al servizio dell’innovazione tecnologica, del risparmio energetico, della formazione avanzata, del trasporto e della comunicazione, di sicurezza e difesa… non ci sono alternative: serve un massiccio piano europeo di investimenti collettivi, con risorse raccolte sul mercato: da privati (il Piano Juncker va nella giusta direzione ma non è che un granello di sabbia rispetto alle risorse necessarie), dall’indebitamento collettivo (project bond), da risorse proprie sostitutive delle inefficienti voci di spesa nazionali (difesa, sicurezza, grandi lavori pubblici, etc).

Ma in tutto questo i riferimenti culturali che abbiamo nel nostro DNA non ci aiutano. Non ci aiutano Hayek ed i fondamentalisti del mercato; ma non ci aiuta nemmeno Keynes, legato al recupero degli spazi di sovranità nazionale (magari in un contesto benevolo a livello internazionale). Serve un nuovo paradigma di teoria e di politica economica, così come in generale di convivenza civile. È quello che l’avanguardia federalista è chiamata a fornire oggi a questa generazione Erasmus in cerca di riferimenti culturali. Sarebbe davvero un peccato se abdicassimo, proprio oggi, a questo compito storico.

  

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