L'Unione Europea attuale può sostenere un'economia della crescita fondata sull'innovazione, la ricerca e lo sviluppo? Purtroppo la risposta è negativa.

Il Trattato di Lisbona fissa in molti punti poteri e funzioni dell'Unione Europea in tema di sviluppo di politiche europee nei settori della ricerca e dell'innovazione (cfr. artt. 4, 179, 180, 181, 182.1, 182.4, 182.5, 184, 187 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, TFUE). Grazie a questi poteri l'UE stabilisce progetti e determina politiche di spesa in maniera autonoma: il più noto è il programma Horizon 2020, il programma-quadro europeo per la ricerca e l’innovazione (2014-2020) che dispone di circa 80 miliardi di euro di finanziamenti nell'arco di sette anni. Tuttavia, una lettura più attenta del Trattato di Lisbona ridimensiona il ruolo dell'Unione Europea che è, in realtà, un mero "coordinatore", una sorta di camera di compensazione per la ripartizione di quelle poche risorse per progetti a corto termine e decisi a livello nazionale.

I costi di una non-Europa istituzionale e politica in questo settore si misurano nell’incapacità dell'UE in quanto tale di creare nuove tecnologie in grado di avere un impatto positivo sulla vita economica, sociale e sulla sicurezza di un Paese. Come osserva Massimo Malcovati in "C'è un futuro per la ricerca e l'innovazione in Europa?" (Il Federalista, LIII, 2011), la nascita di una nuova tecnologia dipende da tre fattori: 1) l’acquisizione di nuove conoscenze; 2) la loro utilizzazione per creare nuovi strumenti o modi d’agire (lo “sviluppo” della tecnologia); 3) la diffusione della tecnologia una volta sviluppata, i problemi etici e sociali sollevati dalla sua applicazione.

1) Acquisizione di nuove conoscenze.

È il frutto della ricerca scientifica di base che, per definizione, non può essere programmata, ma solo stimolata. Ciò comporta un costo elevato per una società poiché richiede una visione politica lungimirante e quindi un potere politico capace di farsi carico di finanziamenti senza la certezza di risultati economici a breve-medio termine e dall’altro presuppone l’esistenza di una rete di ricercatori molto ampia, che affronti i più svariati campi di studio, nella quale idee, dati e persone circolino con la massima libertà.

L'Europa ha praticamente lo stesso numero di ricercatori americani (ma è stata superata dalla Cina nel 2010). Tuttavia esiste una sostanziale differenza qualitativa: mentre è normale per un ricercatore negli Stati Uniti spostarsi da un centro di ricerca all'altro, da uno di tipo universitario ad uno industriale o viceversa, da una disciplina ad un’altra, in Europa tutto ciò rasenta l’impossibilità. Per di più, proprio per le migliori condizioni offerte dagli USA, una fetta non trascurabile della ricerca USA è svolta da ricercatori temporaneamente o stabilmente “immigrati”: in tal modo i costi della loro formazione (spesso migliore di quella statunitense) sono sostenuti da altri paesi (tra cui molti europei), mentre i risultati della ricerca sono acquisiti e utilizzati prioritariamente a vantaggio dell’economia americana.

L’Europa produce il 37.6% del totale mondiale di articoli scientifici, mentre gli USA il 31.5%, la Cina l’8,4% (tra il 2000 e il 2006 l’incremento delle pubblicazioni con un autore cinese è stato del 178%) e il Giappone il’7,8%: l’Europa sembra la parte del mondo che “produce più scienza”. Tuttavia, la leadership europea scompare se si cerca di valutare l’impatto dei risultati ottenuti nel mondo scientifico nei settori d’avanguardia (biotecnologie, ICT, scienze dei materiali, nanotecnologie, etc...) rispetto ad americani, cinesi e giapponesi.

I finanziamenti pubblici dell'UE destinati alla ricerca e sviluppo si equivalgono con quelli degli USA (dato Commissione UE, Innovation Union scoreboard 2015), ma andando a osservare nel dettaglio la percentuale di spesa destinata alla ricerca di base, quella europea è divisa e frammentata nei 28 Stati membri. Invece i finanziamenti privati europei sono quasi il 20% del totale della spesa per la ricerca di base, di gran lunga inferiore a quanto investito dalle imprese statunitensi. Inoltre a partire dal 2007 le imprese cinesi hanno superato quelle europee, ampliando il divario di anno in anno. Questa situazione di povertà materiale è dovuta al fatto che “il finanziamento pubblico della ricerca e dell’innovazione è primariamente organizzato a livello nazionale. Nonostante qualche progresso, i governi nazionali e regionali lavorano ancora in larga misura secondo le loro diverse strategie. Ciò porta a costose duplicazioni e frammentazioni…” (Commissione europea, From Challenges to Opportunities: Towards a Common Strategic Framework for EU Research and Innovation Funding, Green paper 09.02.2011).

2) Lo “sviluppo” della tecnologia

In Europa, salvo pochi Paesi membri, un altro fattore di criticità riguarda la scarsa comunicazione tra ricerca di base (quasi esclusivamente universitaria) e mondo imprenditoriale. Negli USA, Corea del Sud, Giappone questa comunicazione è mediata da centri di ricerca, laboratori, incubatori d'imprese, venture capitalist: queste relazioni sono possibili solo grazie ad un quadro giuridico interno coerente e omogeneo.

Nonostante l’azione della Commissione e del Parlamento, l'Unione Europea resta ancora giuridicamente poco omogenea, cosa che impedisce la diffusione di quella serie di attori che mediano tra ricerca di base e imprenditoria. Per ovviare a questo limite, la Commissione europea ha lanciato le “piattaforme tecnologiche europee” che riuniscono aziende, istituti di ricerca, mondo finanziario e istituzioni pubbliche, sotto una guida industriale, per definire e sostenere un’agenda di ricerca comune per singole aree tecnologiche. Ne sono state avviate in 36 campi diversi (nanomedicina, chimica sostenibile, trasporto europeo, salute animale globale, reti elettriche, approvvigionamento idrico, ecc.). Però si tratta sempre d’iniziative “dal basso”, cioè sono le istituzioni nazionali e le imprese che definiscono i progetti per i quali chiedere il finanziamento alla Commissione, che vi partecipa solo come "osservatore" e gestore dei programmi di finanziamento (es.: Horizon 2020).

E’ proprio la mancanza di un sistema pan-europeo di ricerca e sviluppo (reti di laboratori, centri di ricerca, università, incubatori europei) che finisce per destinare le risorse solo per progetti a breve termine e ad alto valore di successo già definiti dal settore privato: non c'è spazio per progetti di sviluppo di lungo termine (che possono avere anche un rischio d'insuccesso), su beni a valenza pubblica.

Un altro aspetto - completamente ignorato dalle statistiche e dalle considerazioni dell’Unione europea - è il peso degli interessi militari nell’indirizzare la ricerca e lo sviluppo di nuove tecnologie. Basti citare internet, nata da una commessa del Dipartimento della difesa statunitense a quattro università; il sistema di trasporti via container (messo a punto dalla difesa americana durante la guerra in Vietnam) e il GPS, messo a punto per esigenze militari e in un secondo tempo esteso all’uso civile, nel tentativo di evitare la concorrenza da parte del progetto Galileo dell’Unione europea.

3) La gestione sociale, economica e politica di una nuova tecnologia.

Quando poi una nuova tecnologia è definita (ad esempio il GPS, internet, il treno ad alta velocità), il suo sfruttamento economico e quindi la sua introduzione e la sua diffusione da un lato richiedono spesso la creazione, la gestione e la manutenzione di massicce infrastrutture (si pensi alla rete di satelliti per il GPS, o alle reti a banda larga, o alle reti ferroviarie per l’alta velocità) e dall’altro portano a modificazioni spesso profonde non solo del mercato, ma anche di comportamenti della popolazione. Queste modificazioni possono essere gestite solo attraverso un dialogo politico-istituzionale che è parte dell’attività di uno Stato. Si pensi ad esempio alle difficoltà, dovute proprio al sistema della cooperazione intergovernativa che domina anche il settore della ricerca, nella realizzazione del progetto Galileo di posizionamento satellitare, delle “autostrade informatiche”, del piano Delors o anche solo della realizzazione delle reti ferroviarie transeuropee ad alta velocità.

Tali lentezze e difficoltà rappresentano un importante disincentivo o addirittura un ostacolo allo sfruttamento economico di nuove tecnologie sviluppate in Europa: ad esempio il caso del treno a levitazione magnetica ad alta velocità (Maglev) messo a punto dalla Siemens in Germania, ma realizzato e funzionante a Shanghai, o i grandi parchi solari realizzati da Enel Green Power negli USA.

Conclusione. Il principale costo della non-Europa nel settore della ricerca e l'innovazione è il progressivo sperpero del patrimonio di conoscenze e capacità a vantaggio di altre potenze, senza la possibilità di creare un'innovazione politicamente responsabile per le generazioni future a causa dell'assenza di una politica della ricerca coerente e basata su indirizzi precisi, portata avanti da istituzioni federali, dotate dei poteri e dei mezzi necessari alla sua realizzazione.

  

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