Il nuovo presidente degli USA, Donald J. Trump

Grande sorpresa mista a notevole dose di preoccupazione ha accolto la notizia il 5 novembre scorso che il tycoon newyorkese Donald Y. Trump aveva inaspettatamente vinto le elezioni in USA. Subito dopo l’elezione, la domanda che ha attraversato il mondo intero è stata: cosa cambierà nelle scelte della politica americana, sia all’interno che all’estero? Appariva ovvio infatti, dall’esame del dibattito elettorale e dalla dichiarazioni rilasciate in più occasioni dal candidato Trump, che vi sarebbe stata una grande discontinuità nelle sue scelte politiche rispetto a quelle della presidenza Obama e – di converso – della candidata democratica sconfitta Hillary Clinton.

Con le prime scelte sui membri del suo gabinetto, i preoccupati interrogativi aumentavano, evidenziando anche una serie di apparenti contraddizioni. Come faceva osservare Yascha Mounk della Harvard University (CNN – opinions, 13 dicembre 2016): “Il gabinetto di Donal Trump sta prendendo forma ed i suoi membri sembrano rappresentare un mix incoerente di ideologie … ci sono figure radicali come Steve Bannon le cui opinioni su razza e immigrazione sono assai distanti dal mainstream repubblicano. Dall’altro lato ci sono i miliardari e i chief executive come (presumibilmente) Rex Tillerson … che probabilmente vorranno attuare una versione oltranzista dell’ortodossia economica repubblicana”.  “Si dovrebbe ritenere – prosegue Yascha Mounk – che questi due gruppi siano troppo disparati per governare insieme efficacemente”. Al contrario, potrebbe funzionare: “Ciò che a prima vista appare come una profonda contraddizione può in effetti suggerire una strategia sorprendentemente coerente: le scelte del gabinetto di Trump indicano un piano per fornire ai suoi elettori ciò che essi vogliono su questioni quali la razza, l’identità, l’immigrazione – anche se trascura i loro interessi su tasse, health-care e diritti”.

Se “coerenti” contraddizioni sembrano marcare le scelte di politica interna del nuovo presidente, meno dubbi sembrano esserci per quanto riguarda le sue scelte di politica estera e di rapporti con gli alleati sia in Europa che in Asia. Marta Dassù (La Stampa – 14 dicembre 2016), che riferisce da Washington, osserva che: “pur se nessuno sembra poter prevedere cosa farà il neo presidente, è più semplice dire ciò che non farà: continuare come prima.…I’elezione di Trump segna la fine di un’epoca … il sistema internazionale del dopo guerra fredda esce definitivamente di scena. L’America non ne sarà più il pilastro”. In proposito da molte parti si sottolinea un’affermazione – quasi casuale – del Trump candidato: “La Nato è obsoleta”, con tutte le conseguenze che questa affermazione comporta per quanto riguarda gli equilibri geopolitici soprattutto in Europa. Quindi, quale politica estera? Risponde ancora Dassù: “la politica estera di Trump sarà trasactional, contrattuale. Ossia? Ossia un approccio fondato - più che su istituzioni, principi, alleanze stabili – su accordi ad hoc. Su deal temporanei: è il metodo del business applicato alla diplomazia” (e di questo approccio business-like applicato alla diplomazia, la nomina – se confermata – di Rex Tillerson, CEO del gigante petrolifero ExxonMobil, alla segretaria di stato, sarebbe l’ovvio e preoccupante sigillo). Uno di questi deal potrebbe aver luogo con la Russia di Putin – osserva ancora Marta Dassù - :”il deal con un avversario – appunto Putin – può venire prima della difesa di un alleato. Contano i singoli interessi americani; conta meno di prima la salvaguardia generale del sistema occidentale, con i suoi valori liberali e le sue istituzioni multilaterali più o meno traballanti”.

E nei confronti dell’Europa? Si è osservato che Trump ha finora parlato poco di Europa. Ha però (casualmente) lodato la Brexit e suggerito che anche Italia e Francia dovrebbero abbandonare l’Unione. Si tratta di affermazioni gravi – ma in linea con l’approccio pragmatistico e anti-ideologico sopra ricordato, che sarebbe riduttivo definire neo-isolazioniste, in quanto prospettano piuttosto un possibile attivismo nord-americano (ad esempio nei confronti della Russia, anche nel quadro medio-orientale) e che potrebbe addirittura scontrarsi con gli interessi degli europei.

E a fronte di queste prospettive, come reagisce la classe politica europea? Le prima reazioni sono un tentativo di negare l’evidenza e di augurarsi che il diavolo non sia così brutto come lo si dipinge. Qualcuno ha evocato le preoccupazioni che erano state espresse al tempo dell’elezione di Reagan, postulando che anche Trump – al di là delle sue affermazioni elettoralistiche – non potrà non adeguarsi al criterio tradizionale dell’unità del mondo occidentale. Una sorta di manifesto con un elenco delle prospettive positive che avrebbe la continuità dell’alleanza atlantica è contenuto nel messaggio a firma Donald Tusk, Jean-Claude Juncker e Jens Stoltenberg, pubblicato anche su La Repubblica il 14 dicembre 2016, dal titolo “Più cooperazione tra Europa e Nato”. Un classico esempio di wishfuil thinking, come pure l’affermazione dello stesso Stoltenberg alla CNN (Jannuzzi – 16 novembre 2016): “L’Alleanza (la NATO) è forte, unita e quanto mai necessaria e tale resterà”.

Tuttavia, nei corridoi più responsabili delle capitali europee la preoccupazione monta. Secondo Spiegel online (9 dicembre 2016 – “Europeans Debate Nuclear Self-Defense after Trump Win”) nel quartier generale della NATO a Bruxelles, ma soprattutto a Berlino, ci si interroga se l’affermazione che la NATO è sorpassata implichi che verrà a mancare la copertura nucleare tradizionalmente offerta all’Europa dagli Stati Uniti. “Per più di 60 anni – ricorda lo Spiegel – la Germania ha affidato la sua sicurezza alla NATO e agli Stati Uniti. Senza un deterrente credibile, gli stati europei membri della NATO sarebbero vulnerabili a possibili minacce (anche nucleari) dalla Russia. Sarebbe la fine dell’alleanza trans-atlantica”. A metà novembre, ricorda sempre lo Spiegel: “Roderich Kiesewetter, presidente per i cristiano democratici del Comitato per la Politica estera del Parlamento tedesco ha proposto uno scudo nucleare franco–britannico, nel caso in cui Trump metta in discussione la protezione americana dell’Europa”. In Germania vi è una sensibilità particolare su questo tema, visto che la Germania si è impegnata nel 1975 a non disporre di armamenti nucleari, pur affermando, nei documenti di ratifica del Trattato, che: “nessuna clausola del trattato possa essere interpretata per impedire ulteriori sviluppi dell’unificazione europea, specialmente la creazione di una Unione Europea con appropriate capacità”. Cosa significhi questa affermazione fu reso esplicito nel corso del dibattito al Bundestag dal capogruppo del Partito Liberale (allora alleato del governo Kohl) il 20 febbraio del 1974; “E’ ancora possibile sviluppare un potere nucleare europeo”.

E sul tema più ampio della necessità di dar vita ad un sistema europeo di sicurezza (anche esterna) - sembra che si stia dibattendo anche ufficialmente nei vertici europei e nelle istituzioni dell’Unione.(cfr. nostri articoli di pag. 8-9, ndr)

Tutto bene dunque? L’Europa reagisce prontamente ed efficacemente alla minaccia neo-isolazionista che arriva da oltre Atlantico? Non credo si debba essere troppo ottimisti. Come in altre occasioni, la risposta delle istituzioni europee (e degli Stati membri) sembra essere: too little, too late (troppo poco e troppo tardi). Il dibattito in corso sembra concentrato sulla questione della difesa dalla minacce tradizionali esterne e non affronta le questioni di politica internazionale (soprattutto per quanto riguarda gli scacchieri medio-orientale ed africano) ove un vuoto – od un “pieno ostile” – nord-americano rischiano di aggravare  i conflitti, anche sanguinosi (Siria, Iraq, Palestina, Libia, Yemen, ecc.) il cui conto continuerà ad essere presentato agli europei, non solo con il terrorismo ma anche con le migrazioni in massa. La cooperazione strutturata in materia di difesa non basta. A parte le discussioni – che evocano le prese di posizione di Spinelli e del MFE al tempo della CED – su chi comanderà l’esercito europeo che potrebbe nascere dalla cooperazione strutturata, una politica di difesa non può sussistere se non è accompagnata da una politica estera che disponga di tutti gli strumenti della diplomazia e questo postula, come spiegava Spinelli a De Gasperi al tempo della CED, la costituzione di uno stato europeo (ovviamente federale e democratico) che accompagni alle competenze in materia di difesa anche quelle della diplomazia in senso lato, includendo la capacità di attivare iniziative di pacificazione, quali ad esempio un nuovo piano di aiuti economici (sul modello del Piano Marshall) per le aree più arretrate ai confini dell’Europa. Solo in questo modo – indipendentemente dalla scelte del neo presidente nord-americano - l’Europa, uno stato federale europeo, potrà tornare ad essere una protagonista attiva della politica mondiale con un grande progetto per la conservazione della pace e per lo sviluppo di tutti i popoli.

  

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