In tempi ormai lontani Charles-Louis de Secondat (1689-1755), ai più noto come barone di Montesquieu, riuscì nella pubblicazione di un libello tanto singolare quanto indefinibile, intitolato Lettres persanes (1721). Oggi riconosciuto come uno dei capolavori della congerie culturale compostasi durante l’età dei lumi, esso si configura come una sferzante satira della Francia dell’epoca. All’interno di una delle lettere che formano la raccolta redatta da Montesquieu, il medesimo rivolge il proprio tagliente acume alla figura del “novellista”, che nei decenni seguenti si evolverà sino a tramutarsi in quella dell’odierno giornalista: dipinti come cialtroni dediti ai più bislacchi tentativi di previsione degli scenari politici futuri, l’autore ne condensa i tratti dominanti con le seguenti parole: «Sono decisamente inutili allo Stato, e i loro discorsi di cinquant’anni non hanno un effetto diverso da quello che avrebbe potuto produrre un silenzio altrettanto lungo».

Alla dimensione giornalistica può essere rapportato il volume Democrazie sotto stress (2022, Il Sole 24 Ore, pp. 322), il quale si propone come una raccolta contenente gli editoriali che Sergio Fabbrini, docente di Scienza politica e Relazioni internazionali presso la Luiss Guido Carli di Roma, ha pubblicato tra il 2020 e il 2022 sulle pagine de “Il Sole 24 Ore”. La distanza sussistente tra i “novellisti” di Montesquieu e le pregiate disamine di Fabbrini, tuttavia, è contraddistinta da ciclopiche proporzioni: lo stesso Fabbrini, infatti, dichiara di riconoscersi non tanto nella figura del giornalista quanto in quella dell’“intellettuale pubblico”, alla quale associa una ben definita metodologia: «[...] partire dai problemi e non dalle proprie opinioni, scrivere in modo comprensibile e non per iniziati, presentare argomenti chiari e non ambigui, riconoscere che un problema può avere diverse soluzioni». Di qui la prassi che dovrebbe condurre il medesimo “intellettuale pubblico” alla promozione di una «cultura democratica di sistema». Sostanzialmente, ciò che gli editoriali di Fabbrini tentano di realizzare è una strenua e valorosa forma di resistenza al dilagare delle bassezze intellettuali proprie dell’homo videns teorizzato dal politologo Giovanni Sartori (1924-2017), studioso al quale si rivolge lo stesso Fabbrini all’interno dei propri scritti. Pare opportuno rammentare, a tal proposito, che in un celebre saggio pubblicato per la prima volta nel 1997, ossia Homo videns, Sartori ipotizzava un futuro alquanto fosco attraverso l’acuminata considerazione dell’influsso che già all’epoca le peggiori forme della cultura propalata dai mass-media esercitavano sul pubblico ad esse (e da esse) piegato: «Questa rivoluzione è oramai quasi interamente tecnologica, di innovazione tecnologica. Non richiede sapienti, non sa che farsene di menti pensanti. I media, soprattutto la televisione, sono ormai gestiti dalla sottocultura, da persone senza cultura. E siccome le comunicazioni sono un formidabile strumento di autopromozione [...] sono bastati pochi decenni per creare il “pensiero brodaglia”, un clima culturale di melassa mentale, e crescenti armate di azzerati mentali». Ebbene: contro una simile forma di decadimento si staglia, torreggiante, la postura inglobata da Fabbrini nel proprio habitus intellettuale.

Strutturalmente, il volume consta di tre distinte sezioni, le quali fungono da cornici decameroniane: dunque, risolvono i frammenti costituiti dai singoli editoriali in quadri tematicamente organizzati e semanticamente orientati. Nella prima sezione lo sguardo di Fabbrini tocca la democrazia europea, nella seconda la democrazia italiana e nell’ultima quella statunitense. Non si tratta, tuttavia, di compartimenti ermeticamente sigillati: tutti gli editoriali, infatti, dialogano tra loro e insieme restituiscono una densa prospettiva dei pensieri intessuti dall’autore nell’intricato biennio 2020-2022. L’elenco degli argomenti affrontati da Fabbrini è inevitabilmente caratterizzato da ragguardevoli dimensioni: dalla pandemia alle contraddizioni insite nelle istituzioni europee, dalla contrapposizione tra sovranisti ed europeisti all’annosa questione della fiscalità sovranazionale, dai governi Conte I e Conte II alla figura del premier Mario Draghi, dalla decadenza dello scenario politico italiano alle criticità di Biden e Trump, dai rapporti tra Europa e Stati Uniti al disastroso ritiro delle truppe occidentali dall’Afghanistan. Complessivamente, ciò che emerge dagli scritti di Fabbrini è un plesso di considerazioni elaborate mediante il ricorso a un modus cogitandi che non rappresenta soltanto un servizio intellettuale di pubblica utilità, ma anche un’autentica lectio magistralis. Enunciazione del problema, analitica e dilemmatica scomposizione dello stesso, funzionale delucidazione dei nodi concettuali più oscuri, sobria trasparenza bibliografica, sintesi pregnante delle argomentazioni condotte: ecco i lineamenti che definiscono la fisionomia del discorrere di Fabbrini, rendendo il medesimo un insegnamento di pregevole qualità. Nulla dipende da umori estemporanei o da finalità d’infimo rango: volendo ricordare le parole del filosofo Robert M. Pirsig (1928-2017), pare lecito sostenere che l’autore proceda servendosi di un affilato «scalpello intellettuale», rigorosamente proteso verso le «forme soggiacenti» alle evoluzioni della politica internazionale. Emblematico, in questo senso, è l’editoriale dedicato al caso del sofà di Ankara, il quale generò nell’opinione pubblica un ampio dibattito relativo all’antifemminismo imperante nella Turchia di Erdogan. Con mirabile lucidità, Fabbrini evita la palude delle polemiche più epidermiche e riesce a scorgere dietro a tale incidente diplomatico fragilità troppo spesso trascurate, come le contraddizioni attinenti al ruolo del Consiglio europeo e a quello della Commissione.

Di là dalle considerazioni di ordine metodologico, è possibile osservare un convinto sostenitore delle istanze europeiste, della soluzione federalista e della democrazia liberale. Non soltanto: Fabbrini si propone anche come pensatore fortemente consapevole delle peculiarità legate allo scenario politico in cui oggi si muovono l’Italia, l’UE e gli Stati Uniti. Quasi rievocando le idee espresse dal sociologo Edgar Morin nel saggio I sette saperi necessari all’educazione del futuro (1999), Fabbrini insiste regolarmente sulla necessità di una visione politica che tenga conto della complessità che ormai funge da tassello costitutivo del presente: in tal senso, è significativo il concetto di “interdipendenza” al quale lo stesso Fabbrini spesso si appella. Tramontato lo stato-nazione e sorto lo stato-membro, oggi la politica europea richiede scelte coscienti delle interrelazioni che nel contesto globalizzato del mondo contemporaneo congiungono tra loro interi Paesi. L’obiettivo al quale guarda Fabbrini è quello costituito da un’Europa sempre più unita, dotata di un efficiente apparato istituzionale e di un’organizzazione pienamente sovranazionale, munita di una capacità fiscale propria e libera dalle trappole dei veti e dell’unanimità. L’Europa alla quale pensa Fabbrini è un’Europa finalmente caratterizzata dal potere di pronunciarsi in maniera determinante rispetto agli ambiti rilevanti sul piano sovranazionale e internazionale – si pensi, ad esempio, alle politiche difensive o a quelle sanitarie. Soltanto un’Europa compiutamente integrata e solidamente riconosciuta in seno alla politica odierna, nazionale e mondiale, potrà superare lo stress test della contemporaneità e consentire alle democrazie occidentali un futuro lontano da oscuri scenari. Soltanto allora sarà abbastanza.

 

  

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