Mentre prosegue l’aggressione della Russia di Putin in Ucraina, le conseguenze del conflitto si fanno più gravi che mai. Abbiamo visto città distrutte, violazioni continue dei diritti umani, migliaia di morti civili e milioni di profughi. In questo contesto l’Europa ha dimostrato un’inedita unità, reagendo contro i soprusi dell’ingombrante vicino dell’est attivando meccanismi senza precedenti e dimostrando che si può evitare, se c’è la volontà politica, un approccio emergenziale prendendo scelte radicali persino nei limiti dei Trattati esistenti. Un esempio tra tutti: il superamento degli accordi di Dublino per facilitare l’accoglienza delle persone in fuga. La narrazione sulle migrazioni, ormai consolidata, legata alle categorie dell’invasione è crollata come un castello di carte di fronte ad una guerra che ha travolto l’opinione pubblica europea, mostrando una quotidianità distrutta che assomigliava così tanto alla nostra.

Viviamo però in un paradosso, perché la situazione è stata molto diversa per gli ucraini accorsi in UE in altri momenti e che sono stati costretti ad attendere mesi per ottenere un permesso lavorativo che oggi risulta disponibile in appena 24 ore. Dal 2008 fino alla fine del 2020 circa 67.000 ucraini hanno richiesto asilo all'Unione europea, ma appena il 18,7% di loro è riuscito ad ottenerlo. Alla fine del 2021, gli Stati membri dell’UE avevano accumulato in totale più di 700.000 richieste di asilo non ancora esaminate nel corso dell’anno (stime di Civio). Questa è solo la punta di un iceberg che, a pochi giorni dal “World refugee day”, rivela una realtà molto più complessa sulla capacità di fare politiche sociali e umanitarie dell’UE.

In un silenzio assordante, si susseguono gli attraversamenti e le morti nel Mediterraneo. Sono più di 700 le vittime accertate nei primi mesi del 2022. L’OIM dichiara che 7.742 migranti sono stati “intercettati in mare e rimandati in Libia, dove molti sono spesso vittime di violenze e abusi”. A Melilla abbiamo assistito alla scomparsa dei valori fondanti dell’Unione con la violenza dell’Europa fortezza e di un confine securitizzato che ha provocato la morte di almeno 37 persone che cercavano di arrivare “dall’altra parte”. Si rivelano così tutti i limiti di aver scelto di prendere due pesi e due misure nello sviluppo di una governance del fenomeno migratorio mantenendo, di fatto, un paradigma emergenziale.

Basta fare qualche passo indietro per ricondurre questi ultimi eventi ad un processo ormai strutturale. Migliaia di persone sono rimaste bloccate sulla rotta balcanica, nota per le violenze perpetrate dalla polizia croata in quello che viene chiamato “il gioco” per arrivare in Europa, senza regole e spesso senza testimoni. Ricordiamo poi le immagini del campo di Lipa, in Bosnia, e di Moria, in Grecia, le “cacce al migrante” condotte dai paramilitari in Ungheria o gli scandali della violenza della polizia italiana e dei nostri centri di accoglienza straordinaria. Già da diversi mesi, anche la Polonia ha avviato la costruzione di un muro lungo il suo confine con la Bielorussia per impedire l’ingresso ai migranti dal Medioriente. Il confine è presidiato da quasi dodicimila tra militari, guardie di frontiera e agenti di polizia, e ai migranti è negato l’accesso mediante respingimenti sommari con decine di morti documentate nella neve. Non si tratta di casi isolati, ma di una prassi.

In più non è stato posto ancora alcun freno all’esternalizzazione dei costi umani delle migrazioni appaltando a terzi il compito di bloccare gli arrivi con conseguenze drammatiche per le persone, senza contare i continui ricatti dell’autoritaria Turchia di Erdogan, delle bande armate libiche o della Bielorussia. Dopo la Siria, neanche l’abbandono degli USA dell’Afghanistan ha smosso qualcosa per dare una struttura all’accoglienza dei rifugiati. C’è voluto il ritorno della guerra in Europa per vedere qualche passo avanti.

Dopo ventuno mesi di negoziati i 27 sono riusciti a chiudere un accordo sul tema. Dal “Patto asilo e migrazioni”, stilato nel 2020, spariscono le quote obbligatorie di redistribuzione dei migranti, sostituite da una richiesta generica di solidarietà. Sulla carta viene definita una quota annuale di ricollocamenti, con impegni presentati individualmente dagli Stati. In alternativa, questi potranno scegliere di non accogliere e finanziare invece con contributi diretti i paesi di primo arrivo. Si facilitano inoltre i rimpatri e aumentano i controlli sui movimenti “irregolari”. I paesi dell’ex blocco di Visegrad presumibilmente non accetteranno l’arrivo dei migranti, contribuendo alle spese dei paesi al confine: un’arma politica che possono giocare in casa per non perdere consenso.

Altro capitolo è quello dell’agenzia Frontex, più volte accusata di respingimenti e di violazioni dei diritti umani. Un ente tecnico a cui manca una guida politica europea in assenza di un sistema di garanzia democratico per monitorare il suo operato. Intanto, secondo l’ultimo accordo tra i governi, dovrebbe essere rafforzato un corpo permanente di 10 mila effettivi entro il 2027.

Da federalisti sappiamo che le migrazioni sono un fenomeno strutturale della storia dell’umanità e della globalizzazione e richiedono una risposta transnazionale. Con misure parziali, tecniche o di compromesso rischia di accentuarsi il cortocircuito che vede la crescita di sentimenti di odio e discriminazione e una insofferenza verso decisioni politiche comunitarie percepite come imposte dall’esterno. L’odio verso i migranti si associa a quello verso l’UE e le sue istituzioni, reputate sia responsabili della situazione che incapaci di trovare soluzioni. Poco importa se l’Unione non ha il potere di intervenire e se sono proprio gli Stati nazionali e alcune forze politiche euroscettiche a bloccare il necessario processo di rinnovamento.

Proviamo a tracciare allora delle possibili risposte. È necessario istituire un coordinamento europeo delle migrazioni per garantire i ricongiungimenti familiari e il diritto all’asilo, con un definitivo superamento del Trattato di Dublino, e promuovere una gestione e visione comune delle politiche per l’inclusione socioeconomica. Da tempo si discute di una cittadinanza europea “di residenza” slegata da quelle degli Stati per superare i singoli e complessi meccanismi nazionali. Occorre consolidare accordi con i paesi di provenienza e di transito, se democratici, sostenendo il reciproco rispetto degli standard valoriali e dei diritti umani, il benessere comune, l’integrazione regionale e il rafforzamento di vie legali per le migrazioni. Solo con una politica estera europea, che non sia ostaggio del diritto di veto, l’Unione sarà in grado di rifiutare i ricatti di Lukashenko ed Erdogan. Infine, l’UE deve tornare, come ai tempi di “Mare Nostrum”, a fare quel lavoro che oggi svolgono le ONG nel Mediterraneo, superando le logiche criminalizzanti: salvare le persone. 

Sebbene sia possibile, da subito, intervenire con singole misure, è indispensabile avviare parallelamente una riforma della democrazia europea. Non basta la condizionalità economica. Serve una condizionalità di sistema: di comunità - rispetto ai valori - e politica - delle policy e delle istituzioni - tramite una rivoluzione costituente. Dobbiamo definire i limiti entro i quali ogni governo ha o non ha il diritto di agire superando i meccanismi che rendono così complesso l’avvio di procedure di monitoraggio e sanzione, chiarendo il significato dell’adesione al progetto europeo. Non un mercato di interessi più o meno convergenti o contrapposti, “à la carte”, ma una casa aperta al mondo per la pace, la libertà, la democrazia, i diritti umani. 

Una rivoluzione ancora incompiuta. Intanto assistiamo ad una fiducia altalenante verso il progetto di unione dell’Europa, dopo che la storia ne ha confutato l’irreversibilità del cammino. Le spinte centrifughe e il ritorno ad un forte nazionalismo identitario, autoritario, xenofobo non sono dei semplici campanelli di allarme, ma un fatto strutturale. Da un lato, vediamo le istituzioni europee che non sono più inconsistenti o neutrali, ma agiscono in aree di intervento sempre maggiori. Sebbene poco efficaci, e frutto di un sistema prigioniero dell’unanimità del Consiglio, molte scelte politiche sono percepite come europee. Dall’altro lato, gli Stati nazionali sono in crisi, ma non sono quella “polvere senza sostanza” teorizzata da Einaudi. Pur non avendo alcuna possibilità di governare i fenomeni della globalizzazione, non possiamo ignorare che abbiano fatto sentire di nuovo con forza i residuati della loro sovranità tra la gestione della pandemia e l’attuale crisi in Ucraina.

Il pericolo di restare in questo “interregno” è che stia diventando accettabile il ritorno al sistema westfaliano con tutte le sue tragedie, senza riflettere sui limiti di un mondo dominato dal nazionalismo competitivo, e sia sempre più "normale" dire che la conseguenza tollerabile per determinate politiche è la tortura e la violenza su un insieme artificiosamente circoscritto di persone.

L’Europa e gli europei devono scegliere che tipo di comunità vogliono essere sulla base degli errori del passato e sulle sfide del nostro avvenire. Oggi più che mai serve completare il superamento delle sovranità assolute fissando contemporaneamente i confini politici fra quei popoli e quegli Stati che accetteranno questo cambiamento e chi preferirà chiudersi nella difesa di apparenti interessi nazionali. Serve il rilancio nel dibattito pubblico e tra i cittadini della speranza di un processo costituente europeo: questa forse è la grande narrazione, “lo sforzo creativo” - probabilmente l’ultimo - che ci permette e ci permetterà ancora di avere fiducia nella politica, nelle istituzioni ma soprattutto, nel futuro.

 

 

  

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