Il 24 febbraio 2022, ossia il giorno in cui la Russia di Putin ha mosso le proprie truppe contro l’Ucraina di Zelens’kyj avviando un conflitto tuttora in corso, è una data già stabilmente collocabile tra le pagine più determinanti della storia recente. Accanto alla pandemia di Covid-19, l’invasione voluta dal presidente russo si configura come una delle vicende che più stanno sagomando i primi decenni del XXI secolo, segnati ormai da un violento rimescolamento di geometrie geopolitiche, memorie storiche, traffici globali, sistemi culturali e sfide tecnologiche. Il saggio di Micol Flammini intitolato La cortina di vetro. Vecchie paure e nuovi confini: l’Europa dell’Est oltre il passato sovietico, pubblicato da Mondadori all’interno della collana «Strade blu» nel 2023 (pp. 215), rientra nella fitta schiera di testi che in tempi recenti, assiepandosi nel panorama editoriale, si sono proposti di esaminare il presente che attanaglia drammaticamente interi continenti. Nel testo in questione Flammini, giornalista del «Foglio» dedita soprattutto a questioni di ambito europeo, ha incentrato le proprie analisi sul corposo plesso di rapporti che intercorrono tra la Russia odierna, l’URSS del passato e la storia recente dei Paesi che a lungo sono stati parte del macrocosmo sovietico. In particolare, l’obiettivo al quale tende il volume è la ricostruzione della pluralità di storie, a un tempo intrecciate e contrapposte, che strutturano le realtà oggi legate a ciò che l’autrice identifica come «cortina di vetro», ossia uno spazio non più impenetrabile perché posto al di là della celebre “cortina di ferro” coniata da Churchill, ma ugualmente segnato da un rapporto di conflittualità con il blocco liberaldemocratico costituito dall’asse atlantico e dal consesso europeo. Blocco, quest’ultimo, al quale molti Paesi dell’Europa orientale guardano da decenni con ambivalenza, divisi tra scetticismo e processi di congiunzione.

Il saggio, suddiviso in sei parti, comincia con una sezione riguardante l’Ucraina: per ripercorrerne la storia, analizzarne la conformazione socioeconomica ed evidenziare le ragioni che l’hanno resa bersaglio della Russia putiniana, Flammini ne scompone la fisionomia valendosi dei quattro elementi convenzionalmente associati alla natura: acqua, fuoco, terra e aria. Tali elementi divengono metafore delle risorse che rendono l’Ucraina uno Stato denso di ricchezze, nonché il pretesto attraverso il quale ripercorrere le dolorose vicende che hanno scandito la storia del Paese: da tragedie come l’Holodomor del 1932 alla disperata resistenza del reggimento Azov all’interno dell’acciaieria Azovstal’ nel 2022, passando per snodi ideologici come quello costituito dall’idea di russkij mir, il «mondo russo» issato da Putin a pilastro della propria politica imperialistica. Il secondo capitolo tocca una vicenda dal profilo ben diverso. Tratta, infatti, della Bielorussia, le cui vicende storiche più recenti vengono essenzialmente ricondotte a tre figure opposte: Stanislau Šuškevič, il professore di fisica che traghettò moderatamente il Paese al di là dell’URSS partecipando all’accordo di Belaveža; Aljaksandr Lukašenko, il dittatore dalle visioni misogine costretto a trasformarsi in suddito di Putin; il «triumfemminato» composto da Svetlana Tichanovskaja, Maria Kolesnikova e Veronika Tsepkalo: nuove guide dell’opposizione al potere costituito, depositarie delle istanze democratiche sempre più diffuse nella Bielorussia a lungo stordita dalla nostalgia per il passato sovietico. Alle complesse geometrie di Visegrád è dedicato il terzo segmento del saggio. Il caso relativo alla Polonia, «frontiera dell’Europa» legata tanto all’atlantismo quanto alla cristianità, è presentato sia in relazione alle vicende che nel presente oppongono Kaczyński a Tusk sia in relazione alle vicissitudini che nel passato hanno reso lo Stato polacco una terra di morte e annientamento: si pensi all’eccidio di Katyn’ del 1940 o alla tragica rivolta del ghetto di Varsavia del 1943. Interessante è l’intervista concessa all’autrice da Lech Wałęsa, il fondatore di Solidarność, ossia il sindacato che per primo si oppose al regime comunista. Entro il perimetro di Visegrád è inevitabilmente collocato anche il caso ungherese: consistente è lo spazio dedicato al ritratto di Orbán Viktor, «il primo in Europa a importare la democrazia illiberale». Alla figura di Orbán viene contrapposta quella di Nagy Imre, il presidente legato all’uscita dell’Ungheria dall’orbita sovietica e alla democratizzazione dello Stato. Spazio è concesso anche a realtà come quella della Transcarpazia, sottoposta alla propaganda di Orbán, e della Cecoslovacchia, di cui vengono riprese le vicende salienti: dalla “Primavera di Praga” del 1968 alla figura di Václav Havel, fino all’odierna divisione tra Repubblica ceca e Slovacchia, non esenti dai tentativi d’influenza orchestrati da Mosca. La quarta sezione del saggio pone al proprio centro la vicenda relativa alle Repubbliche baltiche, cominciando dalla protesta della “Via Baltica” risalente al 1989. L’autrice ripercorre le storie di Lituania, Lettonia ed Estonia evidenziandone tanto le specificità quanto le convergenze: in particolare, significativa è la disamina volta a sondare il complesso intreccio che nella memoria di tali Paesi contrappone il collaborazionismo nazista all’oppressione sovietica. Proprio al mondo russo guarda il quinto capitolo, dedicato alle «schegge di Russia» rimaste conficcate in diversi organismi statali e trasformatesi in utili risorse strategiche per la politica putiniana: dal caso della nostalgica Transnistria a quello della Georgia inquietata dalle regioni dell’Abcasia e dell’Ossezia del Sud, dalla feroce contrapposizione tra Armenia e Azerbaigian al Kazakistan di Nazarbaev e Toqaev. Il denso viaggio intrapreso da Flammini si conclude soffermandosi sugli Stati dell’ex Iugoslavia, all’interno dei quali l’abbandono dell’URSS e le guerre dei Balcani hanno prodotto eredità aspramente differenti: si pensi, da un lato, alla Serbia desiderosa di farsi «Unione sovietica in piccolo»; dall’altro, alla Croazia integrata nella NATO e nell’Unione europea. Alle loro spalle, fatti inquietanti come gli orrori di Srebrenica.

Oltre all’esaustiva panoramica sulla storia e sul presente dell’ormai scomparso macrocosmo sovietico, ciò che connota pregevolmente il testo di Flammini risiede nel singolare sguardo con il quale l’autrice sviscera l’imponente oggetto del proprio discorso. Il volume in questione, infatti, non corrisponde né a un erudito saggio dai toni accademici né a un instant book scritto con la becera volontà di cavalcare il mercato: spicca, invece, per l’efficace tessitura di approcci e registri elaborata dall’autrice. La ricostruzione storica, che predilige il passato recente pur coinvolgendo incursioni che si spingono sino alla Russia settecentesca di Potëmkin o alla Polonia del XVI secolo, coniuga il ricorso a fonti istituzionali con l’impiego di interviste che toccano sia personaggi illustri – si pensi all’incontro con il leader polacco Lech Wałęsa – sia persone comuni, coloro le cui vite animano la storia e al tempo stesso ne vengono fagocitate. Svariate, inoltre, sono le prospettive che sorreggono l’articolazione complessiva del discorso, formando una rete di snodi capace di restituire un coeso profilo dell’Europa orientale: si pensi alla diffusa preminenza di figure come quella di Putin e Gorbačëv, alla rilevanza che i leader degli Stati esaminati hanno esercitato con le proprie scelte, al ricorrere di questioni etniche, alle controversie tra memorie storiche di segno difforme, alla centralità delle rivolte che animarono i moti indipendentisti degli anni Ottanta e Novanta, al tragico e onnipresente succedersi di guerre e stragi, ai differenti assetti economici dei Paesi scandagliati, alla singolare presenza di sogni imperialistici o di rifondazione dell’URSS. L’autrice incede tra tali scenari miscelando i toni incalzanti del reportage con alcuni dei tratti tipici di un testo divulgativo, ricavandone un dettato che individua nella propria accessibilità uno dei suoi meriti più alti e nella mancanza di un solido apparato bibliografico una tollerabile menda. In tempi tanto insudiciati da fake news e forme invasive di propaganda mistificante, La cortina di vetro di Flammini si staglia come limpido esempio di giornalismo che espone senza nascondere, che spiega senza sottintendere, che sonda con trasparente chiarezza alcuni tra i gorghi più torbidi del mondo contemporaneo. Non celando mai una sensibilità che rigetta qualsiasi tipologia di fallace giustificazionismo, alla ricerca di una verità che di per sé è già scelta etica e politica.

 

  

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