Il 7 ottobre 2023 sono calate le tenebre ben oltre i confini di Israele.

L’inaudita violenza genocidaria perpetrata da Hamas ha prodotto da parte israeliana una risposta militare tanto dura quanto priva di prospettiva: il regime terroristico mafioso di Hamas ha infatti talmente permeato ogni aspetto della vita economica e sociale di Gaza, da renderne impossibile l’estirpazione senza una intollerabile catastrofe umanitaria e senza correre il rischio di estendere il conflitto all’intera regione.

Di fronte all’inumanità del conflitto il pacifismo appare una proposta eticamente comprensibile ma incapace di allungare lo sguardo oltre l’urgenza del cessate il fuoco, finendo così per diventare terreno fertile per narrazioni che, in nome dell’appello alla “Palestina Libera”, ignorano le vite di nove milioni di israeliani, cancellandole da ogni visione di futuro.

 Se il pacifismo non è sufficiente per garantire la pace, non lo è neanche una soluzione basata sulla centralità degli Stati nazionali. 

Qualunque prospettiva di costruzione della pace non può che passare per il reciproco riconoscimento di pari dignità e pari diritti, condensata nella formula “Due Popoli, Due Stati”. Ma se il pacifismo non è sufficiente per garantire la pace, non lo è neanche una soluzione basata sulla centralità degli Stati nazionali. Il 7 ottobre 2023 abbiamo assistito ad un’anteprima piuttosto credibile di quella che sarebbe la politica di uno Stato arabo animato da un nazionalismo più o meno arricchito di fondamentalismo e antisemitismo. 

Senza avere la pretesa di “prescrivere ricette per l’osteria dell’avvenire”, appare tuttavia necessario individuare quei “punti limitati ma decisivi” che consentano di superare la sovranità assoluta degli Stati e costruire la pace immaginando soluzioni che puntino sull’interdipendenza e la collaborazione, a partire dal problema dei confini stessi che dovrebbero avere i due Stati.

Sin da 1948 la pretesa di garantire una qualche forma di continuità territoriale e di omogeneità etnica si è scontrata con la complessa stratificazione delle popolazioni, ulteriormente accentuatasi negli ultimi decenni. Dunque, a meno di non voler immaginare apocalittiche migrazioni forzate, appare necessario costruire un sistema di tutela delle minoranze sulla base di un accordo internazionale, che dovrebbe estendersi a tutelare le differenze etniche, religiose, culturali, ma anche di genere, evitando ogni sclerotizzazione e anzi definendo un quadro giuridico per società autenticamente pluraliste.

La soluzione dei “due Stati” presuppone la possibilità di garantire la sicurezza di Israele senza trasformare allo stesso tempo la Palestina in uno Stato fantoccio. Una questione, quella militare, di non facile soluzione e da affrontare attraverso una serie di strumenti in grado di disinnescare le potenziali conflittualità: da forze di interposizione e controllo sotto bandiera ONU, a tavoli di consultazione permanente, fino alla costruzione di un’alleanza regionale che includa tutti i Paesi che hanno stipulato accordi di pace con Israele e al rafforzamento delle forme di cooperazione euro-mediterranea.

 Il controllo delle risorse idriche può diventare il “primo nucleo concreto” sul modello della CECA e della CEE. 

Ma ancor più della questione militare e della tutela delle minoranze il vero nodo da sciogliere per consentire l’effettivo successo della soluzione “due Stati per due Popoli” è il controllo delle risorse e in primis delle acque del Giordano, uno dei problemi, se non IL problema su cui naufragarono gli accordi di Oslo. Il controllo delle risorse idriche è sempre stato questione di vita o di morte, e la sua importanza si è ancor più accresciuta con l’avanzare del riscaldamento globale e proprio per questo può diventare il “primo nucleo concreto” per realizzare, sul modello della CECA e della CEE, la gestione condivisa delle risorse nella prospettiva di uno sviluppo economico giusto e sostenibile, potenzialmente aperta anche agli altri Stati della regione.

Né la soluzione “Due Popoli, Due Stati” né, tanto meno, la costruzione di una vera pace basata sulla collaborazione e il riconoscimento reciproco saranno possibili senza un radicale cambiamento di paradigma tanto nella politica e nella società israeliana che in quella palestinese.

Se infatti il carattere democratico e pluralista non è affatto garanzia di una politica estera pacifica, è altrettanto vero che un ordine giuridico internazionale non può che costruirsi tra Stati kantianamente “repubblicani”, cioè tra democrazie liberali.

Anche l’opinione pubblica internazionale è chiamata a svolgere il proprio compito, ripudiando allo stesso tempo l’antisemitismo, l’islamofobia e il razzismo, senza paternalismi, ma senza far mancare il proprio sostegno alle forze che lottano per la pace e per la difesa della democrazia e dello Stato di diritto, presenti nei due schieramenti.

Solo così sarà possibile offrire quella prospettiva che oggi sembra mancare. Una prospettiva che, con le lenti del realismo politico, può apparire velleitaria ma certo non più della ricerca della pace attraverso 75 anni di guerra ininterrotta o quasi.

 

  

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