La sicurezza dell'Europa è ritornata una tema di primissimo piano nel dibattito politico. L'invasione russa dell'Ucraina ha spazzato via le illusioni che i governi nazionali e gran parte dell'opinione pubblica europea avevano coltivato negli ultimi trent'anni, ovvero che il Vecchio continente fosse ormai entrato in una fase post-storica in seguito al crollo del muro di Berlino, dove la guerra era solo un triste ricordo del passato o al massimo un problema che riguardava altre parti del mondo. Il risveglio è stato brusco: l'invasione russa dell'Ucraina ha riportato la guerra nel Vecchio continente, la Cina sta fortemente investendo nello sviluppo del suo arsenale atomico, l'intelligence di vari Paesi conferma che la Russia stia per inviare armi nucleari nello spazio e che potrebbe sferrare un attacco ad un Paese baltico nei prossimi anni. Cosa sta facendo l'Europa per fare fronte a questo scenario? Ancora troppo poco. Purtroppo, scandalizzarsi per la nuova corsa al riarmo e invocare la pace non servirà a frenare le ambizioni delle potenze autocratiche. Urge ripensare l'organizzazione della difesa in Europa. Ma in quali termini? Due sono le alternative che si prospettano davanti.
“Scandalizzarsi per la nuova corsa al riarmo e invocare la pace non servirà a frenare le ambizioni delle potenze autocratiche.”
Da una parte, la soluzione più facile è quella di procedere ad un rapido riarmo dagli eserciti nazionali, aumentando le spese per la difesa a circa il 2% del PIL, come richiesto dagli accordi NATO. Il risultato sarebbe quello di avere tanti eserciti nazionali più "forti" da impiegare nell'ambito dell'Alleanza atlantica. Di questi eserciti nazionali solo quello francese sarebbe dotato di un arsenale nucleare, il quale, tuttavia, resta alquanto piccolo e difficilmente potrebbe svolgere da solo un ruolo di deterrenza nei confronti della minaccia russa.
L'alternativa è invece procedere verso la creazione di una difesa autenticamente europea nel quadro dell'Unione attraverso la condivisione progressiva dell'industria militare e delle forze armate. Si tratta quest'ultimo di un progetto molto più ambizioso e complesso da realizzare, presupponendo una serie di riforme istituzionali nel senso di un salto politico dell'Unione verso un modello federale dove la politica estera diventa una competenza europea ed è possibile, di conseguenza, costruire una coerente difesa comune.
Molti osservatori considerano realistica solo la prima ipotesi. Visti i pericoli imminenti per la sicurezza in Europa, solo un rapido rafforzamento dei 27 eserciti nazionali può dare credibilità alla difesa del Vecchio continente. Progetti comuni dovrebbero riguardare per lo più lo sviluppo di nuove tecnologie militari, oltre che un rafforzamento della collaborazione tra le intelligence. In realtà, la strategia del riarmo nazionale è fallimentare e si scontra con due problemi molto concreti, che le classi dirigenti europee dovranno necessariamente prendere in considerazione se vogliono effettivamente garantire la difesa del loro territorio e dei loro cittadini nel nuovo contesto geopolitico di alta tensione.
Il primo fattore è la tendenza ormai strutturale degli Stati Uniti a un disimpegno militare in Europa. Si tratta di una tendenza già iniziata con l'amministrazione Obama e fortemente perseguita da Trump. Se l'invasione russa dell'Ucraina ha spinto Biden ad un cambio di rotta, le difficoltà nella fornitura di armi alla resistenza di Kiev dimostrano che tanto la classe dirigente quanto l'opinione pubblica americana non sono più in grado di garantire in modo adeguato e costante gli interessi degli europei in tema di sicurezza. Un ipotetico ritorno di Trump alla Casa Bianca non farebbe altro che accelerare questo processo. Non solo verrebbe meno il sostegno americano all'Ucraina, ma anche la garanzia di un intervento a difesa degli alleati europei della NATO sarebbe tutt'altro che scontata. Scomparendo – o per lo meno indebolendosi – il pilastro americano dell'Alleanza atlantica, cosa farebbero gli europei con le loro 27 armate nazionali rafforzate? Nessuna di loro sarebbe in grado da sola, neppure quella francese, di compensare il disimpegno americano sotto il profilo della potenza militare. Soprattutto, mancherebbe un ruolo di leadership e di proiezione geopolitica. I leader europei si dovrebbero sedere a un tavolo e tentare di coordinare ogni mossa cercando di superare i singoli veti e cercare un'ardua convergenza tra i diversi interessi nazionali, specialmente nell'eventualità di conflitto ibrido e di lunga durata, come sta diventando quello in Ucraina.
Il secondo motivo per cui 27 armate europee rafforzate non basterebbero a garantire davvero la sicurezza in Europa è che quest'ultima non può essere intesa solo come auto-difesa collettiva da un attacco armato esterno. Questo è solo uno degli scenari - quello più tragico - in cui il sostegno reciproco per la legittima difesa degli europei dovrebbe scattare in automatico. In realtà, prendersi cura della sicurezza dell'Europa richiede un impegno molto più vasto, a partire dalla promozione degli interessi comuni nei diversi focolai di tensione che si moltiplicano per il mondo: dalla tutela del commercio marittimo nel Mar Rosso al superamento del conflitto tra Israele e Palestina, dal contenimento delle ambizioni iraniane alla stabilizzazione della Libia e del Sahel. In altre parole, la sicurezza dell'Europa richiede, prima della difesa, una vera politica estera comune. Quello che gli Stati hanno cercato di fare finora, invece, proprio a causa della mancanza di una simile competenza dell'Unione, è stato un difficile coordinamento delle loro priorità strategiche, ostacolato dall'esigenza di raggiungere l'unanimità delle decisioni; là dove non si è riusciti a trovare un approccio comune, si è assistito ad una competizione patetica tra le cancellerie nazionali nel tentativo di ciascuno Stato di portare avanti le proprie ambizioni nazionali: dal piano Mattei dell'Italia per l'Africa alla stabilizzazione del Mali da parte della Francia, fino alla politica di soft-power della Germania nei confronti della Turchia. Progetti ambiziosi quanto velleitari. In questo contesto di frammentazione, il rafforzamento degli eserciti nazionali non permetterebbe certo di fare quel salto di qualità di cui l'Europa ha bisogno.
“La prospettiva di un'autentica difesa europea avrebbe un effetto deterrente molto più convincente rispetto all'aumento della spesa militare a breve termine nei singoli Stati membri.”
Davanti a questa prospettiva deprimente, un'alternativa c'è già. Il Parlamento europeo lo scorso novembre ha attivato la procedura di revisione dei Trattati ai sensi dell'art. 48 TUE, sulla base di un progetto ambizioso di riforma dell'Unione, che include lo sviluppo di una politica estera comune e l'inizio di una vera integrazione militare grazie all'estensione del voto a maggioranza e al coinvolgimento del Parlamento europeo nei processi decisionali. I governi sono adesso chiamati a sostenere il progetto attraverso la convocazione di una Convenzione che sarà chiamata a redigere la prima bozza del testo di riforma del Trattato. Già questa decisione avrebbe un grandissimo peso politico, facendo vedere al mondo, e soprattutto ai nemici dell'Europa, che la via dell'integrazione politica e militare è stata intrapresa. Anche se nella fase transitoria la sicurezza degli europei continuerebbe a dipendere dagli strumenti attuali, in particolare dalla NATO o da quel che ne rimane, la prospettiva di un'autentica difesa europea avrebbe un effetto deterrente molto più convincente rispetto all'aumento della spesa militare a breve termine nei singoli Stati membri.