L’estate 2019 ha registrato due non invidiabili record: il 29 luglio è stato l’”Earth Overshoot Day”, luglio è stato anche il mese più caldo da quando si è cominciato a registrare le temperature globali.

L’assolata estate 2019 ha registrato due non invidiabili record.
Il 29 luglio è stato l’”Earth Overshoot Day”, il “giorno del sovrasfruttamento”, ovvero il giorno dell’anno in cui il consumo delle risorse del pianeta supera le risorse che la Terra può rigenerare in un anno. In altre parole, i consumi del genere umano dal 29 luglio fino al 31 dicembre saranno “a debito”, il consumo diventa sovra-sfruttamento. Anno dopo anno, l’Earth Overshoot Day è sempre più ravvicinato, lo scorso anno fu il 1 agosto, trent’anni fa era attorno alla fine di ottobre.

Si tratta di misure statistiche necessariamente approssimative ma il messaggio è chiaro, lo sfruttamento avventato delle risorse mette a rischio la salute del pianeta. “La nazione che distrugge il proprio suolo distrugge se stessa” diceva Franklin D. Roosevelt, il genere umano rischia di essere vittima della sua stessa sventatezza.

Il mese di luglio è stato anche il mese più caldo da quando si è cominciato a registrare le temperature globali, oltre un secolo fa. Il Copernicus Climate Change Services, il Programma di monitoraggio ambientale dell’Unione Europea,  ha registrato nel luglio di quest'anno temperature di oltre mezzo grado superiori a quelle del periodo 1981-2010. Se i governi non agiscono prontamente e in modo coordinato sulle emissioni di gas serra, “il record di luglio è destinato a essere battuto” dice Jean-Noel Thepaut, responsabile del Programma Copernicus a Bruxelles.

Il riscaldamento globale, lo sfruttamento scriteriato delle risorse del pianeta, il ripensamento di un modello di sviluppo troppo disuguale sono questioni che interpellano tutti gli abitanti del pianeta, i suoi leader politici, gli intellettuali, i corpi intermedi, le pubbliche opinioni. Coinvolge anche la scienza economica che, in quanto scienza sociale, non può cavarsene fuori.

Nel 2018 l’Accademia delle Scienze di Svezia ha consegnato il premio Nobel per l’economia a William Nordhaus per aver “integrato il cambiamento climatico nell’analisi economica di lungo termine”. Il merito dell’economista americano è stato quello di aver approfondito lo studio dei rapporti diretti tra attività economica, emissioni di anidride carbonica e da qui l’elaborazione di modelli d’impatto ambientale: il cambiamento climatico è “la sfida definitiva della scienza economica”, dice Nordhaus.

Nell’Interim Report sulle condizioni dell’economia mondiale del luglio 2019 il Fondo Monetario Internazionale scrive che il cambiamento climatico “resta una minaccia per la salute e le vite umane in molti paesi, ma anche una minaccia per l’attività economica”. Le ricadute economiche del riscaldamento del pianeta sono facilmente intuibili, l’aumento delle temperature stravolge le coltivazioni, la siccità riduce i raccolti, i paesi che fanno affidamento sull’agricoltura pagano un alto tributo in termini di caduta della ricchezza e impoverimento della popolazione. La maggior frequenza di fenomeni atmosferici violenti, ad esempio uragani, esondazioni o trombe d’aria, comporta danni a cose e persone. Le assicurazioni e le società di re-assicurazione intervengono con sempre maggior frequenza, ne deriva un aumento dei costi per gli assicurati e rischio per la stabilità finanziaria.

La siccità che già affligge vaste porzioni del pianeta continuerà a spingere migliaia di persone, in larga misura appartenenti alle fasce più deboli, verso posti più accoglienti alla ricerca di migliori condizioni di vita. Il fenomeno migratorio non potrà che aumentare, visto che il fardello più pesante dei costi del cambiamento climatico è sopportato dai paesi più poveri. E’ un paradosso perché sono anche i meno responsabili del disastro ambientale, il 50% della produzione di emissioni di gas serra va attribuito al 10% più ricco della popolazione mondiale.

Cambiamento climatico, povertà e carestie non sono inesorabili piaghe bibliche, non sono scritte sulla pietra, ma sono il frutto di scelte politiche. L’ha dimostrato un po’ di anni fa l’economista indiano Amartya Sen: “il ricordo della carestia del Bengala nel 1943, nella quale sono morte due o tre milioni di persone e di cui ero stato testimone, era ancora vivo nella mia mente, ero stato colpito dal suo assoluto carattere di classe; non ho conosciuto nessuno, nella mia scuola o tra i miei amici e conoscenti, la cui famiglia abbia incontrato il minimo problema durante la carestia; fu una carestia che non colpì neppure gli strati medi più modesti, ma solo le persone molto più in basso nella scala sociale”.

Sulla duplice sfida del riscaldamento del pianeta e delle disuguaglianze anche l’Europa e le sue istituzioni sono chiamate a fare la loro parte, la neo presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen è stata esplicita nel suo discorso di insediamento e negli Orientamenti Politici per la nuova Commissione Europea.

Voglio un’Europa che punti a traguardi più ambiziosi e a essere il primo continente a impatto climatico zero” scrive la von der Leyen nel suo Programma, nel quale ha voluto dare voce al messaggio di tanti elettori europei, soprattutto i più giovani che “vogliono un’azione concreta in materia di cambiamenti climatici e vogliono che sia l’Europa a indicare il cammino da seguire … diventare il primo continente a impatto climatico zero costituisce contemporaneamente la sfida e l’opportunità più grandi del nostro tempo, richiede un’azione incisiva, subito; ci impone di investire nell’innovazione e nella ricerca, di ripensare la nostra economia e di modernizzare la politica industriale”.

La neo presidente ha proposto l’obiettivo di raggiungere la neutralità climatica entro il 2050, un ambizioso “Green Deal” che si inserisce pienamente nel solco della tradizione ambientalista europea. Le prime mosse in questa direzione vennero infatti avviate dal predecessore della von der Leyen Jacques Delors nel 1992, in occasione della Conferenza sull’Ambiente organizzata dalle Nazioni Unite a Rio de Janeiro nel giugno di quell’anno. Delors aveva messo a punto un piano europeo per il contenimento delle emissioni di gas serra, un elemento distintivo del piano era costituito dall’introduzione di una “carbon tax” sul consumo di petrolio. Sarebbe stata una iniziativa unilaterale e dunque rischiosa ma Delors confidava sull’effetto emulazione: se l’Europa avesse dato l’esempio e aperto la strada, gli altri sarebbero andati dietro, i comportamenti cooperativi e virtuosi avrebbero diminuito le emissioni nocive e rallentato il riscaldamento del pianeta.

Non andò così, di quella Direttiva non si fece nulla, men che meno della carbon tax che riemerse poi nel 2013, nell’ambito dell’Iniziativa dei Cittadini Europei, promossa dai federalisti (ICE, NewDeal4Europe) e, più recentemente, rivista e aggiornata dal professor Alberto Majocchi dell’Università di Pavia.

Nel discorso di insediamento davanti al Parlamento Europeo la von der Leyen ha esplicitamente dichiarato il suo favore all’introduzione di una imposta sul carbonio alle frontiere. Il rilancio dell’idea della carbon tax comporta il doppio vantaggio di disincentivare le emissioni nocive e di irrobustire il gramo bilancio comunitario. Nelle stime del professor Majocchi, un’aliquota fra i 25 e 30 euro per tonnellata di CO2 darebbe origine a un gettito compreso tra i 55 e i 65 miliardi di euro; “se poi l’aliquota dovesse raggiungere, nel medio periodo, il livello di 50 euro per tonnellata di CO2, come stimato necessario dai più autorevoli studiosi di climate change, il gettito potrebbe salire a 110 miliardi”. Una cifra pari all’attuale bilancio dell’UE, che in tal modo si raddoppierebbe!

Un’iniziativa della Commissione europea in questa direzione avrebbe un duplice effetto: primo, accelerare la lotta al cambiamento climatico, ponendo l’UE come leader globale (obiettivo politico); secondo, dotare l’UE di un primo mattone di “capacità fiscale”, in vista di una vera politica economica (obiettivo strategico).

I beni pubblici sono i mattoni della civiltà umana, la loro condivisione la base della pacifica convivenza. Sono beni pubblici la sicurezza, la libertà di parola, la stabilità economica, il diritto alla salute …

Vanno difesi e preservati, la loro tutela aumenta la qualità della vita della società umana. Sono eminenti beni pubblici l’ambiente, la biodiversità, i mari e gli oceani che la von der Leyen si impegna a “conservare e proteggere”.

E’ una sfida potente e trasversale che riguarda tutti, istituzioni, politica, economia, cittadine e cittadini europei perché “there is no business on a dead planet”, non si fanno affari in un pianeta morto.

 

  

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