Quelli che marciano contro il vento. Così si definivano gli indiani di una piccola tribù delle pianure centrali: gli Omaha. Nonostante le sconfitte, gli arretramenti, le contraddizioni del processo di integrazione europea, per lungo tempo i federalisti hanno marciato con il vento. Non con il vento in poppa. Questo mai. Però con una direzione di marcia che andava nel senso da loro auspicato. Sono i testi ufficiali a proclamarlo. Dalla Dichiarazione Schuman, che definiva la CECA "les premières assises concrètes d'une fédération européenne”, al Trattato di Lisbona, che impegna gli Stati a creare “un'unione sempre più stretta” e a compiere “ulteriori passi ai fini dello sviluppo dell'integrazione europea.”

Proprio negli anni che vedevano la difficile ratifica di quest'ultimo trattato, il vento è cambiato ed ha iniziato a spirare contro di noi. Vi hanno concorso due fattori che si sono rafforzati a vicenda: da un lato, la crisi economico-finanziaria scoppiata in America ha trovato l'Unione e le sue istituzioni impreparate ad affrontarla e per questo ha avuto gli effetti più gravi e più duraturi proprio in Europa; dall'altro, i cambiamenti geopolitici, con il ripiegamento degli Stati Uniti, la crisi migratoria, l'emergere di nuove potenze, la ricerca di nuovi e difficili equilibri.

Gli Stati hanno risposto a queste sfide ricorrendo sempre più ai metodi ed agli strumenti intergovernativi. Hanno salvato in tal modo l'Unione e l'euro, ma hanno alimentato la sfiducia dei cittadini e favorito l'ascesa dei movimenti populisti e nazionalisti. Come scrivevamo su queste pagine, l'UE è sempre più un fortino assediato: dall'interno e dall'esterno.

Anche nelle nostre file si fa talvolta affidamento sulle pressioni esterne per far compiere quelle scelte che sembrano ormai ineludibili, se non si vuole rischiare un completo naufragio. Nessuno nega la rilevanza dei federatori esterni, che sono una condizione necessaria, ma non sufficiente. Come non fu sufficiente ai tempi del Segretario fiorentino che l'Italia “fussi più stiava che li Ebrei, più serva ch’e’ Persi, più dispersa che li Ateniensi, sanza capo, sanza ordine; battuta, spogliata, lacera, corsa, et avessi sopportato d’ogni sorte ruina.” “Non si debba, adunque, - scriveva Machiavelli nell'ultimo drammatico capitolo del Principe - lasciare passare questa occasione, acciò che l’Italia, dopo tanto tempo, vegga uno suo redentore.” Quel redentore non comparve e l'Italia rimase divisa, senza capo, senza ordine. Ne paghiamo ancora oggi le conseguenze.

Serve dunque anche un federatore interno. Secondo la felice formula di Georges Pompidou, “le federazioni sono confederazioni che hanno avuto successo.” Due sono le unioni federali di cui conosciamo meglio il percorso che condusse ad un esito positivo: quella americana e quella svizzera. In entrambi i casi non si ebbe solo una contrapposizione tra le istituzioni unitarie e gli Stati o i Cantoni, ma anche una spaccatura tra questi ultimi. Nell'una e nell'altra situazione si provvide con una serie di compromessi a rimandare nel tempo quella rottura, ma alla fine non si poté evitare la resa dei conti. Per quanto spiacevole possa essere, fu la guerra a tagliare definitivamente i nodi: la terribile guerra di Secessione del Nord-America e la quasi sconosciuta guerra del Sonderbund tra le montagne svizzere.

Non si vuole certo ipotizzare e tantomeno auspicare un conflitto tra gli attuali Stati dell'Unione. Gli esempi storici ci ricordano però la drammaticità ed insieme l'ineludibilità delle scelte da compiere. Non è certo un caso se il diritto di recesso è stato inserito nel Trattato costituzionale e poi mantenuto nel Trattato di Lisbona e non è certo un caso che vi compaiono procedure come le clausole passerella e le cooperazioni, rafforzate o strutturata. E' invece il riconoscimento di un problema reale, che l'Unione si trascina almeno dai tempi del Trattato di Maastricht senza essere mai stata capace di risolverlo. Alcuni speravano che l'uscita del Regno Unito avrebbe privato il fronte euroscettico del suo maggior protagonista, resa più semplice la dialettica tra gli Stati e quindi agevolato una maggiore integrazione. Così non è stato e l'Europa si trova ad affrontare la nona tornata elettorale europea con il rischio che le forze nazionaliste e populiste prevalgano nell'emiciclo di Strasburgo.
Una responsabilità, una grave responsabilità di questo stato di cose va imputata anche ai sedicenti partiti europeisti: alle loro incertezze e pusillanimità e soprattutto alla loro subordinazione ai governi nazionali. Alberto Martinelli ha definito il populismo un'ideologia debole ed il nazionalismo un'ideologia forte. Mutuando la sua classificazione, si potrebbe dire che l'europeismo è un'ideologia debole ed il federalismo un'ideologia forte. Se lo scontro del 2019 sarà tra europeismo e nazionalismo, finirà per prevalere l'ideologia più forte. Noi abbiamo il compito di convertire al federalismo il generico europeismo dei partiti tradizionali. Come è avvenuto in alcune elezioni nazionali, la stessa campagna elettorale finirà per chiarire le posizioni e spingere ad una definizione degli obiettivi che vada al di là dei soliti slogan a favore dell'Europa. L'appello che Massimo Cacciari ed altri prestigiosi intellettuali italiani hanno lanciato va proprio in questa direzione.

Ma v'è un'altra possibilità. In molti Paesi è in atto un rimescolamento del sistema politico, con la crisi dei vecchi partiti e la nascita di nuove formazioni. Alcune di queste sono sicuramente antieuropeiste, ma altre nascono con l'intento di fare della battaglia europea la loro stessa ragion d'essere. Siamo ancora troppo lontani dall'appuntamento del maggio 2019 per sapere come andrà a finire, ma se questo accadrà, la polarizzazione tra nazionalismo e federalismo sarà inevitabile. E' fin banale ripeterlo: per vincere una battaglia, è necessario anzitutto che vi sia la battaglia. Nelle precedenti consultazioni europee non c'è mai stato un vero scontro o, quando c'è stato, è rimasto confinato al livello nazionale. Anche la pur significativa innovazione degli Spitzenkandidaten del 2014 ha prodotto solo un garbato confronto tra candidati non molto distanti per formazione, obiettivi, mentalità. “Per evitare una rivoluzione, bisogna farla”, avrebbe detto una volta quella volpe di Talleyrand. E' bene che i sostenitori dell'Europa, vecchi e nuovi, tengano conto di quell'ammonimento. Non è più tempo di “tepidi defensori”. Contro i nazionalisti bisogna lottare “partigianamente”.

L'Italia è forse la nazione in cui il vento ha cambiato direzione più decisamente e nel volgere di pochi anni. Le recenti elezioni politiche ne fanno fede. Ai federalisti italiani tocca quindi un compito gravoso: promuovere il cambiamento del clima politico, ora nettamente sovranista. Con al consapevolezza di combattere una battaglia la cui rilevanza va oltre i confini nazionali. La campagna approvata dal Comitato centrale di giugno offre alle sezioni ed ai militanti gli strumenti per affrontare la prova, iniziando fin da ora.

Una piccola casa francese, Indigène éditions, ha raccolto una serie di brevi testi di denuncia e di protesta in una collana dedicata appunto a Ceux qui marchent contre le vent. Uno di essi è diventato subito un bestseller: Indignez-vous! L'ha scritto Stéphane Hessel, un uomo della Resistenza, torturato, deportato a Buchenwald, dopo la guerra coestensore della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. A 93 anni, consapevole che “la fin n'est plus bien loin”, Hessel si rivolge così ai suoi lettori: “Io auguro a tutti, a ciascuno di voi, di avere un vostro motivo di indignazione. E' una cosa preziosa. Quando qualcosa vi indigna come io ero indignato per il nazismo, allora si diviene forte, militante, impegnato.” Ai federalisti in questo momento non mancano certo i motivi per l'indignazione e per l'azione.

  

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