C. Gawenda in "Un nemico del popolo"

In uno dei suoi drammi più noti, Un nemico del popolo,  Henrik Ibsen mette in scena il contrasto insanabile tra due fratelli: l'integerrimo direttore delle terme Thomas Stockmann, determinato a denunciare l'inquinamento delle acque causato da alcune concerie della zona, ed il borgomastro Peter Stockmann, disposto a tutti i compromessi ed i sotterfugi per salvare il buon nome degli stabilimenti termali ed i lauti guadagni che ne derivano per tutta la cittadinanza.

Il genio di Ibsen ha rappresentato con maestria quel conflitto tra Ethos e Kratos comparso per la prima volta nell'Atene del V secolo a. C. e da allora divenuto un dilemma di tutte le democrazie. Nell'opera dello scrittore norvegese sono anzi messi in luce tutti quei fattori che trasformano una democrazia in un governo demagogico e tendenzialmente totalitario: la corruzione e l'opacità delle assemblee elettive (il Consiglio comunale), il prevalere degli interessi individuali (l'Associazione proprietari di case), il trionfo dei partiti populisti (“un partito è come una macelleria dove si triturano tutte le teste per farne un bollito”), la connivenza della stampa (La Voce del popolo), l'ottusità delle maggioranze silenziose.

Ibsen è però un autore troppo avvertito e troppo profondo per risolvere le antinomie della politica nella lotta tra il bene ed il male, ignorando, per dirla con Max Weber, che “ogni agire, ed in particolare l'agire politico, è intrecciato con la coscienza del tragico.” Non a caso, come è stato acutamente osservato, la filosofia, che è la capacità di convincere e non di vincere, si afferma ad Atene insieme con la democrazia, che permette agli avversari di convivere senza distruggersi, e con la tragedia, che rappresenta gli opposti inconciliabili. Tre modi di pensare e vivere il conflitto senza annullarlo.

Ebbene, nelle ultime battute del dramma il dottor Stockmann, dopo aver rifiutato ogni compromesso ed ogni mediazione con la realtà, esclama orgogliosamente: “E sapete cos'ho scoperto? Che l'uomo più potente, più forte del mondo è l'uomo solo, il più solo, il più solo...” Al di là dei commenti sconcertati della moglie (sorride scuotendo la testa e mormora: “Ah Thomas tu...”) e della figlia (gli prende le mani ed esclama: “Papà!”), vien fatto di pensare alla celebre conclusione di Aristotele: “Chi è incapace di vivere in società, o non ne ha bisogno perché è sufficiente a se stesso, deve essere una bestia o un dio.”

Chi si occupa invece del regno di questo mondo “sappia che è lui stesso tenuto alle leggi del mondo terreno – le quali per un tempo indefinito contengono in sé la possibilità e l'inevitabilità della guerra di potere – e che soltanto all'interno dei confini di tali leggi si dà a lui la possibilità di soddisfare la corrispondente esigenza quotidiana (ndr: di valori).” I federalisti sanno che il tempo indefinito di cui parla Weber è quello che li separa dalla federazione mondiale e dalla pace perpetua. E sanno o dovrebbero sapere che Spinelli, dopo aver scoperto il federalismo, scrisse: “Machiavelli e Kant si conciliavano nel mio spirito.” Se la tradizione politica a cui ci richiamiamo è stata così feconda, è proprio perché non abbiamo mai dimenticato Machiavelli e la necessità di dar corpo e vita ai valori incarnandoli nelle istituzioni, senza limitarci a vuote enunciazioni di principio.

E' questo che distingue un vero statista e che ha fatto scrivere ad Henry Kissinger: “Gli statisti che costruiscono con preveggenza sanno trasformare l’atto creativo individuale in istituzioni che devono poter essere conservate anche con un basso livello di prestazione dei loro successori”. Con questo metro di giudizio l'ex segretario di Stato americano, dopo aver riconosciuto la “grandezza irraggiungibile” di Bismarck, costruttore dell'unità tedesca e poi per vent'anni dominus dell'equilibrio europeo, finisce per constatare amaramente che “gli dei puniscono talvolta l’orgoglio degli uomini realizzando completamente i loro desideri.” Il mirabile edificio bismarckiano era infatti fondato sulla sabbia e non ha saputo resistere alla fine politica della personalità che l'aveva costruito.

Oggi in nessuno Stato nazionale possono sorgere politici che sappiano trasformare l'atto creativo individuale in istituzioni capaci di durare nel tempo. Siamo agli epigoni. Le vicende che hanno preceduto e poi seguito il referendum inglese hanno fatto dire a qualche nostro commentatore che abbiamo di che consolarci vedendo com'è ridotta la più antica democrazia rappresentativa e questo ci esime per una volta di occuparci del nostro Paese. La crisi della Quinta Repubblica è divenuta in qualche decennio tale da costringere prima ad una union sacrée per battere l'alternativa di regime rappresentata dal Front National e da rendere poi persino impensabile la rielezione di un presidente, sia egli di destra o di sinistra.

Resta la Germania, lo Stato che ha forse il miglior sistema politico-istituzionale. I giornali tedeschi hanno battezzato la Cancelliera con un epiteto evocativo: Merkiavelli. In effetti, nelle scelte politiche della signora Merkel si mescolano dosi di coraggioso idealismo, come la decisione di accogliere un milione di migranti in un solo anno, e di deteriore machiavellismo, come quando all'inizio della crisi bancaria ricorse alla parola di Cambronne per escludere ogni condivisione europea dei rischi: “A ciascuno la sua.” Più spesso, come nella gestione della crisi greca o nel promuovere l'accordo con la Turchia, essa appare un Giano bifronte capace di coniugare un robusto interesse nazionale con qualche forma di solidarietà sovranazionale.

Nei prossimi mesi ed anni avremo a che fare con questi comprimari e con istituzioni europee ancora troppo deboli ed indecise per farsi valere veramente. Il referendum inglese ha però rivelato la profonda verità contenuta nella ossimorica constatazione di Hyman Minsky: “La stabilità destabilizza.” Con gli Stati e la stessa Unione destabilizzati  l'atto creativo è di nuovo possibile, anzi necessario. Purché non dimentichiamo l'ammonimento di Norberto Bobbio: "E’ assurdo o meglio inconcludente vagheggiare un modo diverso di fare politica con attori e mosse diverse senza tener conto che per farlo bisogna mutare le regole che hanno creato quegli attori e predisposto quelle mosse".

  

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