Le borse, primo termometro della crisi

In molti in questi giorni si stanno chiedendo se sarà la Gran Bretagna, che va via, o se saranno gli altri paesi, che restano, a trarre vantaggio del divorzio del 23 giugno. Si stanno facendo la domanda sbagliata. L’economia internazionale non funziona come i campionati europei di calcio e non sempre ha vincitori e perdenti, se da una parte della Manica scoppiasse una significativa recessione con buona probabilità anche dall’altra l’economia si avviterebbe.

Le prime reazioni dei mercati sono peggiori di quelle seguite all’11 settembre ed a Lehman Brothers. Almeno nel breve periodo per evitare il peggio i banchieri centrali, a Francoforte e a Londra, dovranno essere iperattivi. I mercati sono impazziti di fronte all’imprevedibilità di una classe politica di giocatori d’azzardo che ha utilizzato il referendum per battaglie interne ai partiti. Adesso ci sarà grande instabilità economica finché non saranno chiariti moltissimi aspetti: la separazione tra Londra e Bruxelles sarà amichevole? Quanto dureranno le trattative? Quanto peseranno le prossime elezioni britanniche? Qualcuno proverà a sovvertire l’esito del referendum? I rapporti tra Londra e le altre cancellerie europee diventeranno questioni di politica estera o Londra aderirà allo Spazio Economico Europeo? La Scozia e l’Ulster proveranno ad abbandonare il Regno Unito? Quali impatti militari e di sicurezza potrebbe avere una crisi Londra-Belfast? Gli operatori economici danno un prezzo al rischio, ma odiano l’incertezza e vorrebbero risposte a queste ed altre domande. Molti, assai sorpresi, si chiedono se le banche e le grandi imprese non avessero un piano B, visto che tanti sondaggi puntavano sul Remain, ma nessuno affermava che vi sarebbe stato un risultato schiacciante. Io credo che nessun grande operatore economico perda tempo ad analizzare decine di scenari. Non avere un Piano B è da pazzi, ma avere tanti piani quante sono le lettere dell’alfabeto non aiuta a prendere decisioni. Quando vi sarà chiarezza sui tempi e non più di due o tre possibili esiti i giganti dell’industria e della finanza faranno le loro scelte, nel breve quasi ovunque prevarrà l’inerzia. Tutti gli occhi sono puntati sulla City. Oggi forse la cosa più sensata è posizionarsi su uno scenario mediano: i grandi conglomerati finanziari con quartier generale fuori dall’UE non chiuderanno le loro sedi londinesi, ma sposteranno molte attività nell’Europa continentale.
Definire al più presto possibile i nuovi rapporti UE-Londra è una priorità per le imprese, per le famiglie e per i paesi con alta disoccupazione ed alto debito.

Nelle contee più povere del Regno Unito i cittadini hanno provato a dare uno schiaffo alle élite, stanchi di un paese che mette al centro di tutto le banche e la borsa.  Diceva Helmut Schmidt, leader dei socialdemocratici tedeschi negli anni ’70, di recente scomparso, che i profitti di oggi sono gli investimenti di domani e i posti di lavoro di dopodomani. Parafrasando, i crolli di borsa di oggi potrebbero essere i posti di lavoro bruciati di domani. Lehman Brothers ci ha insegnato che la crisi nel brevissimo periodo ha prodotto una contrazione dei valori di tutti i patrimoni e l’esplosione della disoccupazione. Tuttavia nel giro di tre anni i patrimoni, soprattutto i grandi, sono ritornati ai valori pre-crisi, mentre  nei paesi più solidi è continuata la tendenza di impoverimento dei lavoratori, o almeno dei più deboli, e nei paesi meno solidi è esplosa la disoccupazione. Ai crolli di borsa le grandi imprese potrebbero rispondere tagliando posti di lavori o imponendo condizioni più dure ai fornitori. La politica oggi ha il difficile compito di difendere i giovani precari ed i lavoratori anziani che non possono aspettare che passi l’ennesima tempesta.

Quindi chi vince e chi perde? Da un lato Londra potrebbe, trovandosi esclusa dal mercato unico o indebolita, vedere la sua City ridimensionata e registrare un crollo degli investimenti esteri. Ciò impedirebbe al tesoro britannico di continuare a finanziarsi a tasso zero, nonostante i deficit mostruosi e creerebbe problemi sociali terribili in un paese che ha troppe disuguaglianze per poter rinunciare alla piena occupazione. Dall’altra parte l’area euro ha in questi anni dimostrato scarsa capacità di resistenza a quelle che volgarmente chiamiamo “le crisi che arrivano da lontano”. Alla prova dei fatti un’area valutaria senza un Tesoro e senza un governo reale (cioè dotato di risorse proprie) è risultata incapace di effettuare le necessarie politiche anticicliche in un mondo in cui i terremoti finanziari sono sempre più ricorrenti. Quasi tutti gli economisti, tra cui molti anglofoni, sostengono che i maggiori costi del divorzio saranno pagati da Londra, ma un’analisi un po’ più politica ci dice che l’unione monetaria rischia una crisi molto seria e le nostre economie di collassare se i paesi che hanno optato per la moneta unica non decidono, in tempi brevi, di aprire il cantiere istituzionale per giungere ad una federazione e se, nel brevissimo periodo, non creano gli strumenti per fare una politica antirecessiva, nell’attesa di effettuare le riforme istituzionali, oramai indispensabili.

  

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