La sede centrale del Dipartimento dell'Energia degli USA

Nell'ambito della politica energetica dell'Unione Europea la Commissione Europea ha, tra gli alri, il compito di presentare obiettivi a scadenza di breve o di lungo periodo.

Entro il 2020 l'obiettivo sarà quello di raggiungere il 20% di riduzione delle emissioni (Rispetto al 1990 che è anche il riferimento del Protocollo di Kjoto), il 20% di consumi energetici soddisfatti da energie di fonti rinnovabili e il 20% di miglioramento dell'efficienza energetica. Tali obiettivi sono stati riorientati, in forma di bozza da parte della Commissione, al 2030 portando le percentuali rispettive a 40-27-27, la possibile conferma degli stati avverrà al 2020. Il contesto di lungo termine è il 2050 entro il quale si tenterà di raggiungere un taglio delle emissioni che si avvicina alla totalità (80% nel 2050 e 60% nel 2040). In termini di risultati, fino ad ora, l'apparenza però inganna facilmente. Osservando i dati si evince che nel periodo 2005-2011 l'efficienza energetica ha visto un miglioramento del 7%, dal 2005-2012 la produzione di rinnovabile è cresciuta del 5% mentre le emissioni sono scese del 13% lasciando al 2012 una percentuale del 19.2% di riduzione rispetto al valore di riferimento. Apparentemente la politica comunatria ha favorito un certo successo.

Se è vero però che a livello di percentuali l'Ue è molto vicina al raggiungimento di tutti gli obiettivi è vero anche che da un lato il grosso del taglio delle emissioni e della percentuale di produzione rinnovabile sono stati realizzati a causa del crollo della domanda di energia per via della crisi economica, e che dall'altro lato l'Europa ha fallito nel presentarsi come esempio nel resto del mondo. Su questo secondo punto vale la pena di specificare che gli Stati Uniti diverranno, in meno di una decade, energeticamente autosufficienti mentre già oggi sono esportatori netti di idrocarburi. In particolare si parla di unconventional hydrocarbons (i celebri gas shale e oil shale) che contribuiscono proprio come gli idrocarburi convenzionali all'incremento di emissioni di CO2 e che ritardano, potenzialmente, su scala pluridecennale l'avvento delle energie rinnovabili come fondamentale forma di produzione dell'energia. L'impatto europeo sulla riduzione globale delle emissioni di gas serra è dunque trascurabile a causa dell'insignificanza dell'Europa sul piano della politica estera e sul piano del lanciare un progetto credibile che porti alla riconversione della produzione industriale in senso ecosostenibile. Sempre nel contesto della politica estera non va dimenticato l'importante elemento di svolta rappresentato dalla crisi ucraina che ha posto subito in discussione la sicurezza di approvigionamento energetico europeo mettendo in luce questo nervo scoperto del sistema energetico del continente. Anche in questo caso la non-politica estera europea decima il potenziale successo dei suoi piani energetici. Oggi l'approvvigionamento energetico è ormai divenuto tema di dibattito per la relizzazione dell'Unione Energetica, l'incapacità di garantire questo obiettivo rappresenta un costo e un rischio, non solo economico ma di sicurezza.

Per quel che concerne i risultati degli obiettivi in sé si può innanzitutto dire che in termini di analisi e validità degli obiettivi posti in essere la Commissione è poco criticabile. L'obiettivo di una riconversione in senso ecologico dell'industria, della domotica, dei trasporti e della produzione dell'energia verso un modello a basso impatto ambientale, con una corposa filiera rinnovabile, dotata di autonomia e sicurezza energetica è un obiettivo di portata epocale. Le vere cause del fallimento stanno non tanto agli obiettivi in sé quanto agli effetivi poteri di cui la Commissione dispone e alla capacità strategica della Commissione che, non essendo un governo, non può far collimare la politica di ricerca, la politica estera e di difesa con la politica energetica e non può finanziare da sé le proprie politiche lasciando quindi in mano agli stati il governo dell'energia. Il luogo dove la politica europea, ma che di fatto è una politica degli stati nazionali, è nel relazionare gli obiettivi numerici al tessuto industriale e all'innovazione. Gli stati hanno rispettato i tre 20 scegliendo l'energia rinnovabile meno costosa invece di innovare nel settore rinnovabile spendendo e incentivando tecnologie già esistenti. Anche l'effetto della crisi economica sopra citato non può affatto essere trascurato, la domanda è crollata, così come le emissioni mentre in contemporanea le centrali che devono produrre meno energia suddividono il proprio carico sacrificando per prime le centrali a idrocarburi (in Italia le centrali a gas meno efficienti) aumentando artificiosamente in parte  la percentuale di rinnovabile. Ciò ha ridotto la necessità di investimenti in nuovi centri di produzione rinnovabile, localizzati e non.

Se il continente vuole presentarsi come modello e creare le basi della propria competitività anche sulla conoscenza in campo energetico sarà necessario che il livello europeo abbia più poteri.

Lo strumento fondamentale in gestione alla Commissione ad oggi è l'Emission Trading System, ma questo interessa settori (industria, energia e aviazione) che causano non più del 45% delle emissioni del Unione. Inoltre il sistema ETS è un meccanismo, in particolare un "cap and trade" dove il regolatore, la Commissione, calcola e controlla un tetto (cap) e regola quello che è di fatto un sistema di scambi tra privati. Il restante 55% delle emissioni è in mano alla gestione degli stati nazionali che si occupano di edilizia, agricoltura, rifiuti e il resto dei trasporti.

L'ETS non ha funzionato come previsto, sopratutto per via del fatto che, come già citato, la causa del taglio alle emissioni è stata sopratutto la crisi economica assommata alle strategie nazionali in favore del rinnovabile che sono fatte di incentivi finanziati da un bilancio e non da un meccanismo. L'ETS, scarsamente utilizzato, avrebbe invece dovuto orientare l'industria verso innovazioni volte a ridurre le emissioni dei processi produttivi e l'efficienza energetica, cambiando radicalmente la natura della produzione industriale. Ma il ruolo di regolatore della governance europea è privo di capacità di spesa autonoma e non può garantire il successo in un simile campo, il mercato si è arrangiato in maniera diversa dal previsto.

Il sistema è in generale organizzato in modo che gli stati ricevano obiettivi vincolanti annuali divisi su base nazionale, ma sta poi a questi spendere per elaborare e attuare le strategie. Obiettivi continentali più strategia ed esecuzione nazionali hanno portato a risultati che non hanno né stravolto né rivoluzionato la produzione, in Italia ad esempio gli incentivi in fotovoltaico hanno finanziato sopratutto l'economia cinese e tedesca non spingendo il tessuto produttivo ad espertarsi nella produzione o nella gestione dei sistemi fotovoltaici.

Per dare un'idea del senso di costo della non europa si può osservare, orientativamente, come uno stato federale si approccia a questo tipo di dinamiche.

Innanzitutto il governo, locale e federale, e le imprese partecipano in maniera distribuita e coesa ad un analisi della situazione della ricerca sia nel verso top-down sia nel verso bottom-up. Il governo elabora un progetto di mix energetico e degli obiettivi da raggiungere, sia in termini politici sia in termini numerici. Dopodiché fissa, a livello continentale, una vera e propria strategia sulla base di risorse commisurate al problema. Risorse che possiede e gestisce autonomamente nel rispetto dell'obiettivo preposto e non degli interessi degli stati che compongono il sistema, favorendo così le possibilità di successo e una direzione al processo.

Nella pratica gli Usa sfruttano il proprio Dipartimento dell'Energia (DOE) che alimenta 14.000 impiegati federali, 90.000 lavoratori sotto contratto a Washington oltre a 85 centri locali. Inoltre il DOE dispone di 17 laboratori di ricerca a cui si sommano 29.000 ricercatori di provenienza variegata (industria, università e governo).

Inoltre i settori: politca estera, energia e ricerca operano in modo sinergico a livello continentale.

Per dare un'idea del contrasto con la situazione europea, alla Commissione è oggi intitolata la redazione di un piano per l'Unione Energetica europea ma il successo di tale piano è portentosamente viziato dagli interessi nazionali. Secondo lo studio Bruegel sono possibili 4 risultati:

  1. Si avrà un compromesso tra le diverse aree del piano, se gli Stati accetteranno di essere penalizzati su alcuni punti per salvaguardare i benefici generali del piano.
  2. Gli Stati cercheranno un compromesso su ciascun singolo punto; ciò porterà ad un pacchetto meno coerente con obiettivi meno ambiziosi.
  3. Si formano dei blocchi di Stati nelle diverse aree del programma; ciò porterà a un patchwork di approcci regionali.
  4. Gli Stati continuano a cercare all’interno dei propri confini le soluzioni ai loro problemi e coopereranno soltanto quando intravvederanno un chiaro guadagno. In questo caso l’Unione dell’energia sarà un guscio vuoto.

Se i paesi dell'Area Euro non sapranno dare vita ad un sistema che a fronte della "multicrisi"  concretizzi un vero e proprio potere federale o pre-federale, dotato di bilancio autonomo e legittimazione appropriata,  allora l'energia rappresenterà un gravoso costo della non Europa. Il metodo dei meccanismi ha fallito, serve una strategia europea dell'energia fondata su poteri istituzionali chiari e legittimi.

  

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