Il primo aprile del 2015 è stato abolito il regime delle quote nazionali che regolava la produzione di latte nei Paesi membri dell’Unione Europea. A distanza di oltre un anno, i produttori italiani hanno lanciato l’allarme sull’elevata concorrenza del prodotto proveniente da altri paesi UE, che comprime i prezzi sul mercato nazionale e costringe all’abbandono degli allevamenti. Di qui la mobilitazione per il World Milk Day del primo giugno scorso a Milano e la pronta risposta del governo italiano che si è subito impegnato a sostegno della forte lobby lattiera varando con decreto d’urgenza un complesso di misure inviate all’approvazione della Commissione europea. Misure che prevedono agevolazioni fiscali, creditizie e normative, come l’indicazione in etichetta del paese di mungitura, di confezionamento e di trasformazione, che hanno  un sapore protezionistico e che difficilmente potranno  essere autorizzate dalla Commissione UE.
Come spesso accade, i mass media scaricano su Bruxelles le responsabilità per le difficoltà incontrate dal settore, alimentando in tal modo le pulsioni euroscettiche dell’opinione pubblica, mentre vengono al contempo taciute le responsabilità nazionali. Il tema richiede pertanto più di un chiarimento.

Innanzitutto, la crisi degli allevatori italiani deriva dalla loro scarsa competitività, che è stata determinata  da politiche nazionali a lungo accomodanti per ragioni elettorali. Tali politiche hanno favorito lo statu quo, senza stimolare lo sviluppo e lo sfruttamento del potenziale produttivo nazionale. In generale, le stalle italiane sono di piccole dimensioni e non riescono a promuovere le economie di scala necessarie per abbattere i prezzi di produzione e assicurare un efficiente controllo sulla salute e sulle rese delle mucche.  In secondo luogo, va richiamata la vicenda emblematica delle quote latte che è costata all’Italia multe europee per 4,5 miliardi di euro. Va ricordato in proposito che, a seguito delle eccedenze di latte, burro e latticini registrate in Europa agli inizi degli anni ottanta, con il regolamento comunitario 856 del 31 marzo 1984 fu introdotto un regime rivolto a contrastare l’eccesso di produzione lattiera e la caduta dei prezzi attraverso l’assegnazione di quote di riferimento per paese membro. Il regolamento, inoltre, non proibiva le consegne eccedenti  le quantità di riferimento, ma le assoggettava a un tributo, in realtà a una multa a carico del produttore, riscossa per conto dell’UE dall’unità addetta alla lavorazione. Per evitare la multa sulla quantità eccedente, l'alternativa  per l’allevatore era la distruzione del prodotto o la limitazione dell’allevamento.
In Italia il sistema trovò immediatamente le resistenze dei produttori, in quanto il Ministero dell’Agricoltura aveva comunicato a Bruxelles un dato sulla produzione nazionale del 1983 pari a 8.823 mila tonnellate, valutato immediatamente dalla categoria come inferiore alle consegne effettive. Il Ministero sostenne che l’errore era dovuto a una sottostima da parte dell’Istat e, di fatto, le multe furono pagate dallo Stato fino al 1995 quando, a seguito dell’ingresso nell’UE della Finlandia, Helsinki sollevò il caso dinanzi alla Corte di Giustizia europea che impose all’Italia di far pagare le multe direttamente agli allevatori a partire dalle campagne 1995-96. L’applicazione della sentenza da parte del governo Prodi nel 1996 determinò la mobilitazione del mondo agricolo con la costituzione di comitati spontanei di allevatori (i Cobas del latte) che organizzarono manifestazioni di piazza e blocchi stradali ampiamente condannati da Coldiretti, Confagricoltura, CIA. Nel 2008 il Consiglio dei ministri UE aumentò la quota italiana del 5% e l’anno successivo il Ministro per le politiche agricole Luca Zaia avviò una conclusione della vicenda con la legge 33/2009. Tuttavia, dai rapporti della Guardia di Finanza e dei Carabinieri consegnati alle varie Commissioni di indagine istituite nel tempo dal Governo italiano, risultavano gravi irregolarità nell’assegnazione dei quantitativi di riferimento individuali, assenza di autorizzazioni igienico-sanitarie per numerose aziende, diffuse altre irregolarità, compresa la falsa fatturazione come prodotto italiano di latte importato in nero.

Indubbiamente, l’eliminazione del regime delle quote dello scorso anno ha aperto un confronto di mercato tra il sistema produttivo nazionale e quello più efficiente di altri paesi e non può essere trascurato il fatto che la libera circolazione dovrebbe favorire la competizione tra produttori stimolandone la selezione a favore di quelli più innovativi sul piano della qualità, dell’organizzazione produttiva e della distribuzione. Tuttavia sul problema intervengono anche altre questioni nazionali ed europee di importanza cruciale.
Infatti, la natura intergovernativa del sistema decisionale UE determina che ciascun governo protegge le lobby del proprio paese, sorvolando spesso sui metodi di produzione e incoraggia l’aumento della produzione (diffusi allevamenti in stalla, uso massiccio di mangimi extracomunitari in luogo del pascolo e di foraggi freschi, esportazioni anche extra UE di latte fresco, in polvere e di caseina). Il caso più discusso è quello dei Paesi Bassi, dove si riscontra una tale concentrazione di allevamenti che i liquami prodotti dalle stalle hanno inquinato le falde acquifere.
E’ concepibile allora una vera politica europea per il settore?  Una politica non alterata da interessi nazionali protetti, ma improntata all’emergere di un vero interesse europeo? La risposta può essere positiva se si afferma un governo federale europeo, con un’effettiva politica agricola unica.

Tuttavia è possibile anche una marcia di avvicinamento nazionale? In proposito va sottolineato che l’UE ha sviluppato meritoriamente un quadro normativo a tutela dell’ambiente e della protezione del consumatore che risulta il più avanzato nel mondo e tale quadro ormai ispira profondamente sul piano normativo la politica agricola comune, che ha recepito tra i suoi obiettivi quello della tutela della salute delle persone, degli animali e delle piante. Pertanto una strategia italiana attiva di valorizzazione dell’allevamento nazionale dovrebbe privilegiare scelte coraggiose e di mobilitazione degli investimenti, anche a fini occupazionali, per un salto qualitativo nella filiera di produzione nazionale. Si tratta di valutarne costi e benefici, date le risorse disponibili del paese prima di attivarla e di accettare la sfida del mercato unico, invece di piangersi addosso e porre sotto accusa le politiche comunitarie per proteggere interessi  consolidati.
Questi richiami, appena accennati, possono costituire la base per una condivisa strategia europea di affermazione del latte italiano la cui qualità può risultare competitiva come dimostra il fatto che il 40% della produzione (contro la media europea del 20%) viene assorbita dai consorzi di produzione delle 49 qualità nazionali di formaggi  Dop. La produzione di formaggi, infatti, a partire dal Parmigiano-Reggiano, alimenta una fiorente corrente di esportazioni.

  

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