I fatti di Bruxelles del 22 Marzo 2016 hanno riportato al centro del dibattito europeo il tema della sicurezza, persino più intensamente rispetto al post-Parigi del novembre 2015. L’Unione Europea s’interroga su come affrontare il terrorismo, consapevole che quanto fatto finora non è stato sufficiente, ma scontando una strutturale difficoltà a collocare i temi nella loro giusta dimensione. Un limite che è proprio dell’opinione pubblica tanto quanto dei policy makers. Il dibattito, in maniera speculare rispetto all’incapacità decisionale degli organi europei attuali, segue le emergenze e si fa dettare l’agenda, più che mirare a guidare l’Europa di oggi e di domani.

Il problema

La prima riflessione per porre il problema nella corretta prospettiva è che i problemi del terrorismo e della sicurezza sono solo parzialmente coincidenti, nel senso che la sicurezza è un bene pubblico necessario a prescindere dalla presenza del fenomeno terroristico; viceversa, la presenza del terrorismo non dipende esclusivamente dalla gestione della sicurezza interna.

Il terrorismo è un male che si cura con molti farmaci. Il più visibile e confortante è il rafforzamento dei sistemi di sicurezza interna, ma ugualmente importanti sono le politiche sociali dirette a evitare la radicalizzazione delle periferie e degli emarginati, una politica di vicinato per sostenere la nascita di regimi democratici ai confini dell'Europa, una politica estera in grado di combattere – o aiutare a combattere – il fenomeno nei territori dove ha preso il sopravvento e fiorisce maggiormente. Tutti questi temi sono collegati e solo un'azione strategica ad ampio raggio potrà produrre significativi passi in avanti verso la soluzione del problema.

Un recente sondaggio tra esperti della questione ha comunque indicato come prioritario il miglioramento dei servizi di sicurezza e d’intelligence.

Credits: Politico SPRL

In particolare, gli esperti hanno focalizzato il problema della mancata condivisione delle informazioni tra servizi d’intelligence degli Stati europei. Lo stesso Commissario Affari Interni Avramopoulos ha dichiarato che "manca la fiducia tra i Paesi", e che "gli Stati membri devono utilizzare di più e meglio la condivisione delle informazioni in modo proattivo e coerente. Gli Stati membri devono fidarsi l'uno dell'altro". Il riferimento vale anche per l'attuale fallimento dello Schengen Information System (SIS), sostenuto e aggiornato solo dalle intelligence di alcuni paesi membri – come quella francese – e per lo più ignorato dalle altre.

Il rischio di un'analisi di questo tipo, però, è convincersi che sia solo colpa dei servizi segreti nazionali, e del difetto di coordinamento tra gli stessi, se la risposta ai terroristi è stata finora insufficiente. Ossia che, se riusciamo a far parlare tra loro alcune banche dati, avremo sconfitto il terrorismo. Il problema sembra un po' più complesso. La rete di cellule terroristiche, infatti, è tutt’altro che circoscritta ai confini nazionali. Ne è un esempio quanto successe a Parigi: gli attacchi, avvenuti su suolo francese, furono progettati in Belgio e qui si avvalsero della necessaria struttura organizzativa. Parimenti, i recenti accadimenti del 22 Marzo mostrano un dato transnazionale, in quanto le indagini, in pochi giorni, hanno portato gli inquirenti a indagare una persona a Salerno e a perquisire un appartamento ad Atene.

La mancanza di una strategia unitaria per affrontare il problema, i limiti territoriali dei poteri delle singole strutture nazionali, la frammentazione delle competenze e la mancanza di una visione politica ci indicano quale sia oggi il vero problema da affrontare. Finché non si sciolgono questi nodi, la risposta nazionale al problema sarà sempre parziale e in ritardo.

In altre parole, è vero che l'intelligence belga non ha capito cosa stava succedendo, e questo va addebitato in parte a difetti interni, in parte alla mancanza di condivisione di informazioni con i servizi degli altri Stati membri. Ma, anche ammesso che vi fossero tutti i dati a disposizione, non avrebbe comunque potuto condurre direttamente indagini e attività preventiva negli altri Paesi, dove la rete terroristica stava portando avanti la preparazione degli attacchi. Per farlo, avrebbe dovuto chiedere l'intervento delle autorità dei vari Stati interessati, compiendo i passaggi burocratici necessari e senza alcun potere di definire le priorità dell'autorità richiesta. Un dispendio di tempo ed energie, risorse che nella lotta al terrorismo sono decisive. Come ha giustamente osservato Adriana Cerretelli sul Sole 24 Ore (24 marzo 2016), "se c’è un colpevole da cercare e denunciare, questo si chiama Europa, anzi non-Europa".

L’attuale sistema intergovernativo

Nell'attuale sistema, una vera forza europea antiterrorismo non esiste. L'unica forza di polizia europea, Europol, ha poteri molto limitati e non può di certo essere definita un'agenzia d’intelligence europea. Dopo gli attentati di Bruxelles, il direttore di Europol, Rob Wainwright, ha dichiarato che la sua agenzia funziona regolarmente e – considerati i propri obiettivi – dispone di risorse adeguate. "L'agenzia ovviamente aveva bisogno di essere rinforzata dopo gli attacchi di Parigi, ma comparare le sue risorse con quelle di altre agenzie è fuorviante" ha dichiarato; infatti, "Europol non ha poteri operativi come l'FBI. Questo non è il suo ruolo".

Dopo gli attentati di Madrid del 2004 è stata creata la figura del coordinatore antiterrorismo, nominato dall'Alto Rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza, ma anch'esso dotato di funzioni e poteri di solo monitoraggio e di coordinamento, peraltro sotto il controllo del Consiglio (quindi, in definitiva, di ogni Stato). È chiaro che in una situazione del genere, dove il terrorismo ha messo in piena luce una crisi profonda e potenzialmente vitale dell'Unione Europea, lasciare la risposta ai singoli Stati membri non è più accettabile. La strategia europea antiterrorismo, ferma al 2005, deve essere aggiornata alle esigenze più pressanti e sulla scorta dell'esperienza degli ultimi 10 anni.

Due giorni dopo i fatti di Bruxelles, il Consiglio riunitosi il 24 marzo scorso, non ha fatto altro che mettere in mostra tutte le debolezze dell'attuale sistema. La Dichiarazione comune dei Ministri della giustizia e degli interni degli Stati Membri ha stilato una lista di dieci azioni da intraprendere, tra cui spiccano il sostegno al Gruppo Contro-terrorismo (CTG), accelerando la creazione di una piattaforma dedicata per lo scambio multilaterale d’informazioni in tempo reale, la creazione di squadre investigative comuni per coordinare le indagini e raccogliere e scambiare prove, la creazione di una squadra comune di collegamento di esperti nazionali antiterrorismo presso il centro europeo antiterrorismo (ECTC) di Europol con l'incarico di sostenere le autorità di contrasto degli Stati membri nelle loro indagini sulle più ampie dimensioni europee e internazionali dell'attuale minaccia terroristica.

Le proposte sono rimaste sul piano del coordinamento dei sistemi d’intelligence attualmente esistenti – cioè quelli nazionali. Questa prospettiva, tuttavia, non solo è inutile, ma rappresenta un rischio per le libertà dei cittadini europei. L'esperienza ci insegna che un sistema di sicurezza debole sopravvive solo con forti costi a carico della privacy dei soggetti controllati. Non a caso tra le proposte concrete di azione maturate nel Consiglio del 24 marzo troviamo l'adozione entro aprile 2016 della direttiva PNR, per garantire lo scambio di informazioni tra le Unità d'informazione sui passeggeri (UIP) e l'implementazione dell'alimentazione sistematica, l'uso coerente e l'interoperabilità delle banche dati europee e internazionali nei campi della sicurezza, degli spostamenti e della migrazione.

In mancanza di un'efficace risposta europea, il rischio di una deriva autoritaria dei governi non è remoto, e solo un'azione comune efficace può scongiurarlo. Far funzionare la sicurezza è una sfida esistenziale dell'Europa di oggi. Se continuerà a funzionare male, potrebbe non ottenere risultati, oppure ottenerli con costi esagerati sulle libertà individuali. Sul piatto di questa crisi c’è quindi la capacità di coniugare sicurezza e libertà per i cittadini europei.

La prospettiva di un FBI europeo

Il governo italiano ha manifestato un certo favore per una risposta comune al terrorismo. A ridosso degli avvenimenti di Bruxelles, Renzi ha parlato della necessità di "una struttura unica della sicurezza europea", mentre Enrico Letta ha dichiarato: "dobbiamo smetterla con servizi di intelligence nazionali a compartimenti stagni, che non si parlano. È ora di creare una struttura ampia, forte, veramente europea. Un FBI europeo".

Questa proposta richiede però alcune precisazioni.

In primo luogo, per poter funzionare un FBI europeo ha bisogno di essere del tutto indipendente dai governi nazionali, per poter esercitare il proprio compito autonomamente e senza condizionamenti da parte degli Stati: deve agire secondo le regole decise dal Parlamento Europeo e rispondere alla Commissione, non al Consiglio. In seconda battuta, occorre garantire a un'agenzia europea adeguate risorse di personale e un potere di spesa commisurati ai suoi obiettivi, nonché poteri coercitivi di intervento, applicabili su tutto il territorio dell'Unione. Non solo poteri d’intelligence, ma anche di polizia, di indagine e di applicazione di misure cautelari restrittive, limitatamente alla finalità della repressione del terrorismo internazionale. In altre parole, un FBI europeo deve essere genuinamente "Federal".

Proprio su questo tema è intervenuto il Procuratore della Repubblica di Torino, Armando Spataro, che in un'intervista su Repubblica del 29 marzo scorso ha chiarito come non si possa affidare l'azione antiterrorismo alla sola intelligence – la cui azione è preziosa, ma risulta inevitabilmente sottratta al controllo democratico: la strategia, dice il Procuratore Spataro, deve coinvolgere la forza di polizia e i giudici. Ma non possono essere la polizia e i giudici dei singoli Stati, che finora si sono dimostrati poco inclini a lavorare insieme per un obiettivo comune. La proposta potrebbe proprio cadere sulla trasformazione delle strutture già esistenti di Europol ed Eurojust in una vera Polizia e una vera Procura federale con il compito di combattere il terrorismo, ma anche gli altri crimini che saranno devoluti secondo il principio di sussidiarietà al livello europeo, come alcuni crimini di criminalità organizzata. Queste istituzioni federali dovrebbero poi necessariamente collaborare con un'intelligence europea dotata di poteri reali, che risponda politicamente alla Commissione e sotto il controllo del Parlamento.

È quindi naturale che la creazione di poteri di tipo federale in materia di antiterrorismo debba essere inquadrata in un percorso verso una piena Unione politica democratica, attraverso il completamento dello spazio di sicurezza, libertà e giustizia e con evidenti ricadute anche sulla competenza in materia di politica estera, senza le quali il progetto europeo resterebbe zoppo.

  

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