La storia. Il trattato di Schengen fu concluso nel giugno 1985, da Francia, Germania (allora quella dell’Ovest), Belgio, Olanda e Lussemburgo: i cinque Paesi decidevano di adoperarsi per l’abolizione dei controlli sulle persone alla frontiera. L’importante documento fu firmato a Schengen, tranquilla cittadina sulle rive della Mosella, situata in un luogo molto simbolico: in Lussemburgo, al confine con la Francia e con la Germania. L’accordo era costituito da una dichiarazione di princìpi e obiettivi, che fu completata nel 1990 da una Convenzione di applicazione, entrata in vigore nel 1995. Schengen diventò, in seguito, parte della legislazione europea con il trattato di Amsterdam del 1997 (in vigore dal 1999). Nel frattempo altri Stati si aggiungevano ai cinque originari e andavano a formare lo “spazio Schengen”, territorio libero dai controlli di documenti. In quegli anni nasceva e cresceva l’Unione europea, i cui pilastri erano rappresentati, appunto, dalla libertà di movimento delle persone, delle merci, dei capitali fra gli Stati. Oggi aderiscono all’accordo 26 Paesi, di cui 22 sono membri dell’Ue e quattro no (Islanda, Liechtenstein, Norvegia e Svizzera), mentre due membri dell’Unione, Regno Unito e Irlanda, non ne fanno parte. Chi aderisce all’Ue entra anche allo spazio Schengen: però, per Bulgaria, Cipro, Croazia e Romania, il trattato non è ancora entrato in vigore.

Il contenuto. Il trattato intende conciliare la libertà e la sicurezza, anche dopo l’apertura delle frontiere. Fra le misure previste, c’è la collaborazione tra le forze di polizia e il coordinamento degli Stati nella lotta alla criminalità organizzata (mafia, traffico d'armi, droga, immigrazione clandestina). Un capitolo fondamentale dell’accordo riguarda l’integrazione delle banche dati delle forze di sicurezza, realizzata attraverso il “Sistema di informazione Schengen” (Sis), per gestire dati che consentono agli Stati Schengen di scambiarsi notizie sull’identità di determinate categorie di persone e sulla proprietà dei beni. Per consentire la libera circolazione senza che ciò turbi l’ordine pubblico, la convenzione prevede il rimando a norme comuni sui visti e sul diritto d’asilo, quelle che oggi regolano i due settori in tutti i nostri Paesi. Nel 1990 venne poi creata una frontiera esterna unica, lungo la quale i controlli all’ingresso dello spazio Schengen erano e sono tutt’ora effettuati secondo procedure identiche. A pattugliare questo confine è l’agenzia Frontex, istituita nel 2004.

Le eccezioni. Il codice frontiere, che è parte dell’acquis Schengen, stabilisce che per esigenze di ordine pubblico e sicurezza nazionale uno Stato può ripristinare i controlli alle proprie frontiere, adeguati alla situazione di emergenza. Inoltre, il Reg. UE n. 1051/2013 prevede questa opzione anche nei casi di gravi lacune nei controlli esterni all’Area, ma in tali situazioni l’iniziativa spetta agli organi UE (Consiglio e Commissione). Nel passato, diversi Stati hanno fatto ricorso a questa possibilità, in presenza di grandi eventi, come summit internazionali, campionati europei di calcio oppure nel caso di forti minacce di attentati.

Crisi Schengen. Gli accordi sulla libera circolazione delle persone hanno funzionato “in condizioni normali”, sulla base delle sole regole. Ma con lo sviluppo impetuoso delle correnti migratorie (e anche a seguito delle minacce terroristiche) le sole regole, in assenza di un potere esecutivo europeo capace di farle rispettare, hanno mostrato la loro fragilità. Se non c’è un controllo europeo diretto delle frontiere esterne, diventa inevitabile che ogni Stato membro voglia ristabilire il controllo sulle frontiere interne. Negli ultimi mesi l’hanno fatto in molti: la Francia dopo gli attacchi terroristici di Parigi del 13 novembre 2015, la Germania, l’Austria, la Danimarca, la Svezia e la Norvegia per contrastare l’arrivo dei richiedenti asilo. Al vertice di Amsterdam dello scorso 25 gennaio 2016, alcuni Stati hanno chiesto alla Commissione europea di avviare la procedura per il prolungamento di questi controlli, fino a un massimo di due anni, come previsto dall’articolo 26 del codice. La Commissione ha per ora denunciato la situazione della Grecia che sarebbe venuta meno ai doveri di controllo sul suo perimetro esterno, che coincide con quello dell’Unione. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, nel solo mese di gennaio 2016, sono arrivati sulle coste del Paese più di 31 mila migranti. Questa grave mancanza da parte del Paese potrebbe legittimare l’estensione delle verifiche ai propri confini da parte degli altri Stati europei. Un provvedimento che metterebbe in serio pericolo l’esistenza dello spazio europeo senza frontiere.

I costi della non-Schengen. Secondo France Strategie, un autorevole think-tank governativo francese, la fine di Schengen costerebbe, a regime, annualmente 100 miliardi di euro, pari allo 0,8% del PIL europeo. Ma anche un intervento soft e ridotto nel tempo avrebbe effetti notevoli sul turismo nei week-end, i lavoratori transfrontalieri ed il trasporto merci: ad esempio, i trasportatori, solo a causa dei ritardi che si accumulerebbero alla frontiera per i necessari controlli, avrebbero un costo di 55 € per ora. Oggi la mobilità e flessibilità operativa sono essenziali ai fini della ricerca del lavoro, specie giovanile e la reintroduzione dei controlli alle frontiere sarebbe un serio problema. Secondo il think tank Bruegel nel 2014 quasi 1,7 milioni di residenti dell’Area Schengen hanno oltrepassato i confini nazionali e nel 2013 sono stati effettuati 218 milioni di viaggi notturni oltreconfine, di cui 25 milioni per motivi di lavoro. Da un punto di vista economico appare intuitivo che, in una fase di ripresa minima dalla recessione, la cosa meno intelligente sia quella di imporre restrizioni alla libertà di movimento delle persone. Per i ventenni di oggi è fuori da ogni razionalità dover tirare fuori il documento per passare il confine. E chi vuole andare a trovare il figlio in Erasmus di certo non ha tempo da perdere con la polizia di frontiera. Ma il costo maggiore di una crisi-Schengen non è economico, bensì politico. Se mettiamo in discussione Schengen, i controlli torneranno ad essere la norma e non l’eccezione, come accade oggi. Distruggere Schengen significa fare a pezzi un simbolo dell’Europa unita. La soluzione non è il ripristino dei controlli alle frontiere.

Oltre Schengen. Le regole non bastano, ci vogliono istituzioni europee che le facciano rispettare, anche contro la volontà degli Stati. Cominciando dalla struttura Frontex, che dovrebbe dar vita ad un corpo di polizia di frontiera e a una guardia costiera europea, come da proposta della Commissione (dicembre 2015). Il nuovo corpo avrebbe mezzi e personale superiori rispetto a Frontex e, in situazioni urgenti, dovrebbe intervenire sul territorio di uno Stato per garantire che siano prese le misure adeguate, anche nel caso in cui non ci sia una richiesta di aiuto da parte del Paese coinvolto. È un punto difficile, ma decisivo, perché mette in piena luce un passaggio di sovranità sul terreno della sicurezza. Lo dimostra la cautela con la quale la Commissione si sta muovendo, prevedendo il diritto di intervenire al termine di un processo graduale, in caso di “persistenza” dei ritardi e delle omissioni nei controlli alle frontiere da parte dei paesi coinvolti. Come federalisti europei, auspichiamo che la Commissione abbia la determinazione di portare avanti la sua proposta originaria di una vera guardia europea di frontiera, in vista dell’obiettivo di arrivare a un’unione federale nel campo della sicurezza.

  

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