La storica manifestazione federalista di Milano 1985: piazza Duomo gremita di folla a sostegno del "progetto Spinelli"

L’immobilismo del sistema che governa l’Unione Europea – detto “intergovernativo”, perché la politica generale d’indirizzo sta nelle mani dei governi nazionali riuniti nel Consiglio Europeo – sta producendo danni enormi ai cittadini europei e alle stesse istituzioni, sia Europee sia nazionali. Questo sistema non produce più decisioni pronte ed efficaci e lo vediamo sui principali dossier che stanno sui tavoli di Bruxelles.

La politica europea sull’immigrazione si scontra con la finzione degli Stati di voler apparire ancora sovrani al fine di ottenere un certo consenso  elettorale  (altrimenti  debole).

Per questo certi Stati alzano i  muri: vogliono mostrare di esser i garanti della sicurezza. Non danno all’Europa gli strumenti per varare un grande piano di sviluppo e di stabilizzazione dell’Africa, per fingere di essere sempre i ‘signori’ della politica estera. Quando invece un governo federale europeo, dotato di risorse proprie, sarebbe in grado di dare una vera sicurezza agli Europei e varare un Piano Marshall per l’Africa, garantendo a Europei e Africani pace e sviluppo. La politica europea in campo economico è ancora condizionata dalla falsa alternativa tra austerità e crescita, tra rigore e flessibilità. Serve solo a mascherare la volontà di mantenere le scelte di politica economica a livello nazionale, perpetuando all’infinito la distinzione tra paesi virtuosi (quelli del Nord) e permissivi (quelli del Sud). Quando invece un governo federale europeo, dotato di risorse proprie, sarebbe in grado di andare oltre l’attuale Piano Juncker (che pur presenta elementi positivi, come si spiega nell’articolo di pag. 11) e varare un grande New Deal for Europe basato su investimenti pubblici nelle infrastrutture di base, nella difesa del territorio e del patrimonio culturale, nella ricerca e nell’istruzione, per traghettare l’Europa verso la società della conoscenza. E indurre più facilmente, grazie allo sviluppo innescato, gli Stati ad alto debito a rimettere in ordine i propri conti.

La politica europea sul commercio estero (che è di competenza esclusiva dell’Unione, in base ai Trattati) è recentemente entrata in crisi sulle trattative con USA e Canada, per la pretesa di diversi governi di rimettere anche alle decisioni di tutti i parlamenti nazionali (e anche regionali) scelte finora effettuate dal Parlamento europeo (che rappresenta i cittadini) in co-decisione con il Consiglio (che rappresenta gli Stati). Si corre il serio rischio di aprire la via alla ri-nazionalizzazione del commercio estero (come si ricorda nell’articolo pubblicato a pag. 10), trasmettendo la fallace idea che gli stati nazionali difendono meglio i propri cittadini, così come intendono dimostrare i Paesi dell’Est sul terreno dell’immigrazione. Quando invece un governo federale europeo potrebbe trattare, da pari a pari, con le altre grandi aree commerciali la definizione di standard internazionali su prodotti e servizi, dando così un vero contributo al governo politico della globalizzazione.

Siamo dunque in presenza di tre crisi specifiche, ciascuna delle quali rimanda ad un problema sottostante che resta irrisolto. La questione della sicurezza, che pone il problema di determinare qual è il potere politico che deve decidere sui temi dell’immigrazione, della politica estera e di difesa. La questione dello sviluppo, che pone il problema di qual è il potere politico che deve determinare le scelte fondamentali di politica economica in Europa. La questione della democrazia, che pone il problema di come determinare la divisione di competenze e controlli tra gli Stati e l’Europa, al fine di evitare confusione e conflitti di potere.

Queste molteplici crisi avvengono in un contesto europeo di vuoto di potere, caratterizzato da leadership politiche deboli (compresa quella tedesca), tutte preoccupate del consenso elettorale. Nel 2017 ci saranno elezioni politiche prima in Francia e poi in Germania. Merkel e Hollande pensano forse di rimandare di un anno le scelte sulle questioni europee per paura di non urtare il proprio elettorato? Un grave errore. Se si vuole battere il populismo e l’euroscetticismo è necessario prospettare a breve termine un chiaro progetto europeo, con obiettivi e scadenze, fatto di politiche per l’immediato e a lungo termine, come pure di riforme istituzionali da compiere, per dare all’Unione forza, stabilità e una capacità decisionale basata sulla fine del potere di veto degli Stati ed il conseguente passaggio al voto a maggioranza in tutti i campi e anche nel Consiglio Europeo. Questo è il primo passo verso una maggiore democrazia europea. Parimenti, il prossimo referendum italiano sulla riforma costituzionale mostra il nesso esistente tra riforme nazionali e riforme istituzionali europee, che sono impellenti, pena la dissoluzione degli Stati nazionali stessi e la loro perdita d’identità nell’anarchia, come è detto chiaramente nella “Dichiarazione” che pubblichiamo a pag. 7.

Di fronte a questo immobilismo delle leadership nazionali occorre allora che ci sia un’occasione e un’iniziativa politica, capaci di determinare uno scenario nuovo. Indipendentemente dall'esito della Brexit i paesi dell'area Euro saranno costretti a dire come intendono ridisegnare il rapporto con il Regno Unito e con i paesi non-Euro. Quest’occasione si manifesterà verosimilmente con la celebrazione del 60° Anniversario dei Trattati di Roma (25 marzo 2017), una data già considerata come uno spartiacque tra la ‘vecchia’ e la ‘nuova’ Europa da costruire.

È l’occasione – di spinelliana memoria – che il processo politico europeo presenta a fasi alterne e che va colta. Il nostro Movimento, in collaborazione con altre Associazioni europeiste e della società civile, intende mobilitarsi e mobilitare l’opinione pubblica europea per chiedere una Federazione europea a partire dai Paesi che hanno già la moneta unica. Ci sono due condizioni che sono necessarie perché si determini un salutare shock popolare pro-europeo, come si afferma nelle pagine dedicate alla “Campagna per la federazione europea”.

La prima è che il “popolo europeo” si mostri concretamente. In questi lunghi anni di crisi abbiamo sentito ripetere che i cittadini hanno voltato le spalle all’Europa e che vogliono tornare a rinchiudersi nel recinto degli stati nazionali. Sappiamo che non è vero, che questo è l’altro grande alibi alimentato dalle classi politiche e dai media nazionali. Al contrario, gli Europei, di fronte alla domanda giusta («vuoi tu un governo federale europeo, con competenze nella politica estera, nella difesa e nell’economia e responsabile democraticamente di fronte al Parlamento europeo?») rispondono ancora in larga maggioranza SÌ, in particolar modo i cittadini dell’Eurozona. Ebbene, il 25 marzo 2017 questo popolo deve emergere. Sono i giovani della generazione Erasmus, chi lavora in azienda o i giovani immigrati che lavorano in fabbrica, i tecnici e i ricercatori: chiedono all’Europa futuro e sviluppo. Sono i professionisti e gli imprenditori che alimentano, con i loro affari, lo sviluppo del mercato interno: chiedono all’Europa regole e sicurezza. Sono gli operatori nel campo dell’istruzione, della cultura, dell’informazione, della tutela del patrimonio della nostra grande civiltà europea: chiedono all’Europa un progetto.

La seconda è che questo popolo si ponga anche la domanda del “che fare” («non chiedere cosa può far l’Europa per te, ma cosa tu puoi fare per l’Europa», parafrasando John Kennedy). Se fare l’Europa dipende anche da noi allora occorre battersi per cambiare le attuali istituzioni europee, per dare all'Europa le risorse e gli strumenti per farla uscire da questo stato di minorità. È questa la condizione per la nascita di una vera democrazia europea. È questa la consapevolezza da portare a Roma, il 25 marzo 2017.

  

L'Unità Europea

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