Molto prima del crack finanziario americano del 2007-2008, che coinvolse grandi e piccoli investitori dell’Unione Europea e si ritorse contro l’economia reale, pensammo che fosse urgente predisporre un paracadute per l’eventualità di una crisi del dollaro e lo identificammo nel basket di valute rappresentato dai diritti speciali di prelievo sul Fondo Monetario Internazionale, non una moneta unica euro-like - dunque - ma una moneta comune eculike.

Questa prospettiva fu rafforzata dal grande aiuto fornito allora dalla Cina alla stabilità del sistema monetario e finanziario internazionale, dalla promessa di Obama d’includere il renminbi nel paniere DSP (2009), dal mantenimento di questa promessa – anche se solo al termine del suo secondo mandato (2015) a causa della lunga opposizione parlamentare – e dalle prime emissioni obbligazionarie della Cina e della Banca Mondiale in DSP. La proposta di una “nuova Bretton Woods”, incaricata di sostituire il dollaro, emesso secondo la ragion di Stato di una singola potenza, con il paniere DSP, propedeutico a una moneta mondiale indipendente dalle singole valute nazionali, era coerente con questo quadro e rimane l’obiettivo di uno sguardo lungo. Si tratta di una transizione simile a quella che, nella nostra esperienza, ha portato, dalle singole valute europee, prima all’ECU poi all’euro. Sia l’ECU-euro sia il DSP, infatti, hanno origine dal filone di pensiero che inizia col bancor di John Maynard Keynes, portato a compimento da Robert Triffin. Nel primo emendamento allo Statuto del FMI (1969), Triffin ottenne che si esprimesse l’obiettivo di utilizzare solo il DSP come moneta internazionale. Gli Stati Uniti, pur avendo firmato l’impegno, non permisero di attuare il proposito, ma il valore di quello sguardo lungo resta agli Atti.

Nel decennio trascorso fra la crisi finanziaria e quella sanitaria, l’entusiasmo per il DSP è ancora una volta diminuito, come negli anni Settanta, mentre è iniziata la formazione di un sistema monetario internazionale multi-valutario.

Ricordando la conversione di Triffin all’euro negli anni Settanta, quando l’affermazione del DSP fu bloccata dagli Stati Uniti, dobbiamo anche noi riconoscere la necessità di superare un’altra fase prima di arrivare alla moneta mondiale. D’altra parte, la stessa BW fu possibile solo perché la schiacciante superiorità militare e finanziaria degli Stati Uniti, alla fine della seconda guerra mondiale, permise loro d’imporre il dollaro, e non il bancor, come moneta mondiale. Fu una ratifica della realtà.

La prossima BW dovrà essere quella della fine delle egemonie e dell’inizio della cooperazione.

Sarà perciò molto più complessa di un’imposizione. Avrà per soggetti non singoli Stati nazionali ma grandi Aree monetarie. Sulla formazione di queste deve perciò fermarsi la nostra attenzione. Occorre usare lo sguardo corto senza distrarsi da quello lungo, ben consapevoli di come finì il sistema multi-valutario affermatosi fra le due guerre. Certamente anche questo nuovo sistema multivalutario non sarà stabile e noi federalisti dovremo saperci battere per le soluzioni che possono preservare il nostro valore più alto, la pace.

Si tratta perciò di ragionare ancora una volta in termini di real-politik per rendere poi evidente la sua inadeguatezza rispetto al nuovo “modo di produzione”, scientifico e tecnologico, che ha consentito lo sviluppo delle forze produttive su scala globale. Occorre guardare cosa avviene al dollaro, all’euro, al renminbi, allo yen e ad altre Aree valutarie composte da Paesi tra loro interdipendenti ma prive di un progetto di unità monetaria.

Non cito la sterlina, il cui peso è ormai insignificante mentre completa con la Brexit la propria eutanasia post-imperiale. Fortunatamente la vittoria delle forze politiche democratiche su quelle nazionaliste, sia all’elezione del Parlamento europeo (2019) sia a quella del Presidente degli Stati Uniti (2020), consente di riavviare il dialogo atlantico per un rilancio del multilateralismo e delle organizzazioni internazionali. Tuttavia ci vorrà del tempo per rimediare i danni arrecati dalla presidenza Trump. Ad esempio, lo stesso Biden mira a un summit delle democrazie, escludendo così buona parte degli esseri umani dalla partecipazione alle decisioni mondiali e attribuendo agli Stati Uniti la capacità di decidere quali Paesi siano democratici e quali no. Sciocchezze cui si porrà rimedio, ma che richiedono ancora una volta molta pazienza. Mentre il tempo necessario a sanare le ferite trascorre, ci si è accorti che il fenomeno della globalizzazione può essere meglio compreso, per la sua massima parte, come frutto della rivoluzione scientifica e tecnologica. Inoltre la massima crescita dell’interdipendenza si è realizzata all’interno di grandi gruppi continentali di Paesi. Ciò basta a spiegare la formazione di nuove Aree monetarie a fianco di quelle già esistenti.

Il dollaro è oppresso da una montagna di debiti che non ha precedenti nella storia dell’umanità. La «piramide di carta» (Guido Carli), in confronto, sembra oggi modesta, mentre restano sul campo il «deficit senza lacrime» (Rueff-De Gaulle) e l’«esorbitante privilegio» (Giscard d’Estaing). Ci si può chiedere perché il dollaro sia ancora accettato come valuta di riserva e di finanziamento, al primo posto fra le valute, nonostante le ingenti vendite di dollari da parte della Russia e della Cina a favore dell’oro e dell’euro. Ci si deve chiedere, contemporaneamente, come mai l’euro stia invece per superare il dollaro come mezzo di pagamento internazionale.

Alla supremazia finanziaria del dollaro si contrappone quella dell’euro nell’economia reale. La debolezza dell’euro nel settore finanziario riflette i due campi d’integrazione non ancora completati: l’unione bancaria (manca ancora l’accordo sull’assicurazione comune dei depositi) e il mercato europeo dei capitali. Inoltre c’è sempre la path dependence: il sistema bancario americano si è sviluppato su un grande mercato unificato in funzione di ambizioni imperiali, quello europeo ha sofferto per buona parte della propria vita della divisione continentale in Stati nazionali in guerra fra loro. Il dollaro conserva questa forza, retaggio della storia, perché dopo la dichiarazione d’inconvertibilità in oro (Nixon, 1971) e in occasione della prima crisi petrolifera (OPEC, 1973) gli Stati Uniti ottennero che il prezzo mondiale del petrolio fosse quotato in dollari, piegando la volontà dei Paesi produttori che avrebbero voluto un quotazione in DSP. L’energia quotata in dollari riposava sulla protezione militare americana delle rotte di approvvigionamento e consentiva di riciclare l’enorme quantità di dollari accumulata dai Paesi produttori con investimenti negli stessi Stati Uniti. Nacque così il mito del “gendarme e banchiere” mondiale. L’ininterrotta serie di guerre perse o “non vinte” ha screditato il gendarme, mentre le gravi crisi finanziarie del Sud-est asiatico, della Russia, di grandi imprese americane e infine della stessa Wall Street hanno indicato al resto del Mondo la de-dollarizzazione e l’accumulo di riserve diversificate come priorità strategica. Doveva essere evidente fin dal primo giorno che la formula “petrolio contro investimenti in dollari” avrebbe comportato un deficit cumulativo delle partite correnti USA compensato da movimenti di capitale (che altro non sono se non debito estero).

I responsabili americani risposero a quest’obiezione: «il debito è nostro, ma il problema è vostro».

L’Europa si unì e creò l’euro. A tutto ciò si aggiunga che il dollaro non può più essere considerato una valuta convertibile, e men che mai la moneta mondiale, perché grandi Paesi sono sottoposti a diktat americani (sanzioni) estesi anche al resto del mondo con la minaccia di essere esclusi dal mercato finanziario americano, dal sistema di pagamenti (SWIFT), ecc. Il caso dell’Iran illustra al meglio la situazione creatasi.

L’intenzione, dichiarata dalla Commissione europea, di favorire l’utilizzo internazionale dell’euro sembra in contrasto con la nostra convinzione che il “dilemma di Triffin” valga non solo per il dollaro, ma anche per l’euro e per qualsiasi altra moneta regionale alla quale si affidi un ruolo globale. In realtà l’Unione non aspira a un ruolo mondiale per l’euro, ma intende fronteggiare situazioni che rientrano nella sua sfera di responsabilità regionale (il “cortile di casa”) e che rischiano di sfuggire a ogni controllo. Pensiamo in primo luogo all’Est. La situazione in Ucraina non è ancora risolta e non lo sarà senza una pacificazione complessiva dell’Unione europea con la Federazione Russa.

Questo risultato potrà essere raggiunto sulla base dell’interdipendenza economica fra i due gruppi di Paesi, ma potrà anche essere ostacolato dagli Stati Uniti, che dovranno perciò rientrare in partita. Per l’intanto accade che, durante la crisi finanziaria indotta dal coronavirus, la FED abbia consentito i consueti accordi swap verso tutti i Paesi short di dollari tranne la Cina e la Russia, prontamente rimpiazzata dalla BCE. Per noi europei la pacificazione con la Russia è assolutamente indispensabile.

L’Ue ha due strumenti di politica estera, l’adesione e l’associazione. Quest’ultima formula, variamente sviluppata (come nel caso della Norvegia, della Svizzera e perfino della Brexit) può adattarsi anche alla Federazione russa. Istituzioni finora trascurate, come il Consiglio d’Europa e l’OSCE, potranno fornire il quadro politico della “Casa comune” cui aspirava Gorbaciov.

L’altra parte del “cortile di casa”, cioè delle nostre responsabilità regionali, è l’Africa, nei cui confronti l’Unione ha avviato il “Piano di sviluppo con l’Africa”, e dal Medio Oriente. Queste due Aree devono essere trattate insieme, non solo per le problematiche comuni di pacificazione tra Musulmani sciiti e sunniti e di controllo del fondamentalismo terrorista, ma anche perché qui, più che altrove, la scelta monetaria assume una decisiva rilevanza politica mondiale. In questo caso la valuta scelta dalle Aree di libero scambio in formazione sarà quella nella quale si fisserà il prezzo del petrolio e di molte materie prime. In pratica, sarà la sostituzione del dollaro. A nostro avviso non deve proporsi l’euro ma il DSP (ad esempio l’Afro-DSP, ecc.), inizialmente come unità di conto, per poi seguire il percorso che dall’Unione Europea dei Pagamenti condusse all’Unione Economica e Monetaria Europea. Perché non l’euro? Per la stessa ragione per cui non il dollaro né il renminbi: si deve usare una moneta comune che non rievochi il colonialismo passato né minacci forme di dominazione futura. A tal fine è di fondamentale importanza che l’Unione europea abbia come principale interlocutore e partner l’Unione africana. Infine, anche nei confronti degli Stati Uniti, l’adozione di un paniere in cui il dollaro pesa ancora per oltre il 40%, ancorché destinato a una graduale riduzione secondo le regole FMI, renderà la transizione meno dolorosa.

La Cina, come già accennato, ha scelto la strada dell’internazionalizzazione del renminbi rispetto alla sua definizione in termini di DSP. Però un fatto nuovo di grande portata ha modificato la scena: la formazione di una grande Area di libero scambio che include la Cina, il Giappone, la Corea del Sud, l’Australia, la Nuova Zelanda e i Paesi ASEAN, da cui gli Stati Uniti si sono auto-esclusi per l’isolazionismo di Donald Trump. Quando sarà matura la scelta di una moneta comune per questo gigantesco mercato asiatico, non è pensabile che i Paesi sottrattisi alla supremazia del dollaro vogliano sottoporsi a quella del renminbi (e men che mai dello yen, che poggia su una popolazione pari a un decimo di quella cinese). A quel punto la scelta dell’ancoraggio al DSP rientrerà nel novero di quelle possibili. Quella per cui battersi.

Resta da lanciare uno sguardo (questo sì lungo) all’America Latina. I diversi tentativi di unità regionale si sono sempre risolti in risse fra democrature di destra e di sinistra. Dal punto di vista monetario, il riferimento delle diverse valute al DSP rappresenterebbe un forte elemento di pacificazione, ma da solo non basta.

Occorre predisporre una base di comprensione. Finora un solo leader ha capito la posta in gioco (la pace) e, nonostante l’affaticamento dell’età, si è recato in Congo e in Irak e andrà in Cina.

Però, come chiedere a Francesco di recarsi anche nelle opposte democrature del Venezuela e del Brasile? Infine, uno sguardo al futuro Sistema monetario internazionale deve contemplare, accanto al dollaro, all’euro e al DSP, le valute digitali. La questione è se queste possano avere una vita autonoma.

La nostra risposta è negativa.

L’esperienza del bitcoin, caratterizzata da enormi oscillazioni di valore, ha escluso che esso possa svolgere le funzioni della moneta (unità di conto, mezzo di scambio e riserva di valore). I big della Silicon Valley hanno registrato questa deficienza e hanno sentito il bisogno di ancorare la loro lybra a un paniere di monete, ovviamente differente dal DSP.

Anche questo progetto stenta a prendere una forma definitiva. Dal punto di vista del potere, questi progetti riecheggiano le idee della Mont Pelerin Society, fondata da von Hayek: il valore di ogni cosa dev’essere stabilito dal mercato, anche le monete devono essere in concorrenza fra loro, senza monopolio pubblico. Fortunatamente neanche la grande ondata neo-lib e neo-con, iniziata con Reagan e protrattasi fino al fallito colpo di Stato di Trump, è riuscita a sfondare su questo punto. Può darsi che i cittadini siano creduloni rispetto alle grandi “visioni” politiche, ma quando si tratta dei loro risparmi capiscono di avere bisogno di regole e garanzie: meglio le Banche centrali, con le loro riserve e i loro poteri di controllo. Però un Sistema monetario internazionale con valute digitali che replicano quelle reali non assicurerà importanti incrementi di efficienza, a meno che la valuta digitale non sia unica e ancorata al DSP, perché ciò di cui il mondo ha bisogno è una moneta mondiale.

 

  

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