CARLO BASTASIN, Viaggio al termine dell’Occidente. La divergenza secolare e l’ascesa del nazionalismo, Roma, Luiss University Press, 2019.

 

Il tema di questo interessante libro di Carlo Bastasin è la ricerca delle cause strutturali dell’ascesa nei paesi avanzati dell’Occidente (in particolare Europa e Nord America) delle tendenze nazionaliste e della crisi del sistema liberaldemocratico, fenomeni connessi che si sono manifestati in crescendo a partire dalla fine della guerra fredda e del sistema bipolare. Riassumo schematicamente il discorso svolto dall’autore. Il fattore decisivo è individuato nella “divergenza secolare” che non coincide con la disuguaglianza economico-sociale, che è certo un dato da tener presente, ma non adeguatamente esplicativo. In sostanza la divergenza è un prolungato senso si marginalità e di mancanza di prospettive per il futuro sentito da coloro che temono l’inarrestabile declino della loro professione, della comunità o della famiglia e anche da coloro che proteggono un crescente benessere (i quali hanno un atteggiamento che ricorda il “radicalismo aristocratico” di cui parlava Nietsche). Vengono individuate due cause fondamentali, a cui se ne aggiunge una terza, anche se è meno adeguatamente tematizzata.

Anzitutto viene presa in considerazione la “globalizzazione”, la quale ha certo prodotto un grandioso progresso (in particolare miliardi di persone stanno evolvendo verso standard di vita occidentale), ma è d’altra parte caratterizzata da pesanti contraddizioni riassumibili in particolare: negli squilibri territoriali (più rilevanti di quelli economico-sociali che li accompagnano) non solo fra paesi avanzati e aree emarginate rispetto alla globalizzazione, ma anche all’interno dei paesi avanzati; nelle emigrazioni bibliche provenienti non solo dalle zone esterne ai paesi più avanzati, ma anche da quelle interne a questi; nel fatto che vengono poste in situazioni senza prospettive intere comunità (in particolare nell’Heartland degli USA e nel Sud Europa); nella crescita delle metropoli accompagnata da una vistosa decadenza delle periferie ad esse interne e di quelle esterne.

Alla globalizzazione si accompagna (e ne rappresenta il fattore trainante) “la digitalizzazione” legata alla rivoluzione tecnico-scientifica la quale produce enormi divari – intellettuali e soprattutto di autostima legata al senso di inutilità - fra chi entra in questa sfera e chi rimane nelle vecchie professioni (non solo manifatturiere ma anche impiegatizie) che non hanno futuro.

Se l’accoppiata globalizzazione-digitalizzazione ha chiaramente implicazioni rivoluzionarie, queste sono accentuate dalla “questione ambientale-climatica” dalla quale derivano squilibri crescenti fra le zone che ne sono più o meno coinvolte. Basti pensare alle zone costiere (o alle isole), alla desertificazione, alla inevitabile decarbonizzazione, fenomeni che tendono a colpire in modo drammatico zone geografiche e ambienti economico-sociali gravemente danneggiati in mancanza di aiuti di grandiose dimensioni.

Il discorso di Bastasin sulle cause della divergenza secolare si accompagna al chiarimento delle implicazioni di questo fenomeno rispetto alla crisi della democrazia liberale e al nazionalismo.

Riguardo alla crisi della democrazia liberale si sottolinea fondamentalmente che i problemi di enormi dimensioni derivanti dai processi della globalizzazione, della digitalizzazione e della crisi ecologica richiedono, per essere affrontati seriamente, dei programmi politici di lunga durata (“decennali”) ed estremamente complessi. A questo riguardo si richiama in particolare l’attenzione sul fatto che se la questione fondamentale da affrontare fosse la diseguaglianza economico-sociale le difficoltà sarebbero decisamente minori perché il confronto sarebbe essenzialmente sulla politica ridistributiva fra chi rappresenta i più ricchi e chi i meno ricchi e la durezza e complessità di questo confronto sarebbero decisamente attutite dal fatto che i più ricchi devono essere aperti alle politiche di superamento delle eccessive differenze economico-sociali per evitare la marginalizzazione elettorale. Per contro la lunga durata e la complessità dei programmi necessari per affrontare la problematica della divergenza secolare entra in contraddizione con i ritmi della democrazia liberale che prevedono elezioni ogni 4-5 anni (quando non ci sono elezioni anticipate) e quindi una oggettiva tendenza da parte delle classi politiche a proporre programmi di breve termine e quindi inadeguati. Questa organica incapacità dei sistemi liberaldemocratici, così come sono attualmente strutturati, ad affrontare i problemi estremamente complessi della nostra epoca fa nascere la sensazione della inutilità delle procedure liberaldemocratiche, che appaiono sempre più un rito formale contrassegnato dalla divergenza fra voto popolare e soluzione dei problemi. Ciò favorisce i fenomeni come il disinteresse per la politica, l’antipolitica (che invece del riformismo sostiene la protesta caotica)  e le tendenze favorevoli all’autoritarismo.

Per quanto riguarda il nazionalismo che si sviluppa parallelamente alla crisi della liberaldemocrazia, l’autore sottolinea in particolare la tendenza a ricostruire l’autostima ferita – che della divergenza secolare è la manifestazione preminente – incolpando anzitutto coloro che sono percepiti come i vincenti nel quadro del processo che la produce, cioè i gruppi privilegiati e gli stati più avanzati, ma anche coloro che sono ancora più marginali, cioè gli emigranti e i gruppi etnici, e aggrappandosi ad una identità astratta, cioè l’ideologia nazionale. Vi è in sostanza una diffusa fuga verso il mito passatista e l’irrazionalità che ha come bersagli l’integrazione europea e più in generale le istituzioni della collaborazione sopranazionale.

Le due implicazioni fondamentali della divergenza secolare, cioè la crisi della liberaldemocrazia e il nazionalismo, sono particolarmente gravi, sottolinea Bastasin, in Italia, la quale a partire dagli anni ’90 ha perso il treno della rivoluzione tecnologica e si è venuta a trovare in una durevole situazione di crescita zero, caratterizzata in particolare dalla trappola della bassa crescita e del debito eccessivo che impedisce di mobilitare adeguate risorse fiscali per rilanciare la crescita. Per cui sono particolarmente forti le tendenze nazionalsovraniste, che si manifestano soprattutto incolpando la Germania, la Francia e l’Unione europea dei guai dell’Italia, e che hanno indotto un forte indebolimento dell’europeismo dell’opinione pubblica, che negli anni ’80 aveva il primato fra i paesi partecipanti al processo di integrazione europea.

A conclusione della sua riflessione Bastasin si pone il problema di come affrontare la crisi della liberaldemocrazia (di cui il nazionalismo appare un sottoprodotto) indotta dalla divergenza secolare. E’ chiaro che la sfida fondamentale è rappresentata dalla necessità di riforme strutturali attraverso le quali i poteri pubblici devono impegnarsi, al di là delle politiche ridistributive (che pure vanno portate avanti), ad affrontare seriamente problemi di enorme complessità, in particolare grandiosi processi di riqualificazione professionale adeguata alla rivoluzione tecnologica, di riequilibrio territoriale e di riconversione ecologica del sistema produttivo.

Occorre pertanto che i governi diventino capaci di realizzare una pianificazione a lungo termine, cioè ottengano una durata “cinese” della azione governativa, fondata sulla selezione di una classe politica qualificata dalla competenza e non dalla sola capacità di raccogliere consensi per programmi a breve termine. Questa esigenza deve d’altra parte essere conciliata con un consenso democratico “europeo”. Su come ottenere questa conciliazione l’autore dice molto poco. In sostanza si limita ad affermare che occorre “rafforzare i presidi costituzionali delle democrazie liberali”.

Valutando in termini essenziali il discorso sviluppato da Bastasin, ritengo si debba riconoscere che l’indicazione della divergenza secolare (che ridefinisce in termini dinamici il concetto di disuguaglianza) come fattore decisivo della crisi della democrazia liberale (e del connesso nazionalismo) rappresenta un valido contributo alla comprensione di queste sfide con cui si confronta la civiltà occidentale. E’ invece decisamente carente(e proprio per questo traspare una certa vena pessimistica) il discorso sulle caratteristiche che il sistema liberaldemocratico dovrebbe acquisire per essere in grado di affrontare adeguatamente le implicazioni negative della divergenza secolare. Qui emergono due limiti fondamentali.

Il primo limite riguarda le dimensioni del sistema liberaldemocratico in grado di rispondere alle sfide del governo della globalizzazione, della digitalizzazione e della questione ambientale. L’autore non affronta d’altra parte la questione del federalismo a tutti i livelli (cominciando dall’Europa) che è indispensabile per affrontare i problemi di fondo della nostra epoca che hanno tutti dimensioni sopranazionali,con decisive ripercussioni locali.

Il secondo limite riguarda la configurazione istituzionale del piano che si deve attuare. Bastasin parla di “rafforzamento dei presidi costituzionali dei diritti delle democrazie liberali” alludendo al fatto che fra questi deve rientrare l’impegno inderogabile al superamento della divergenza secolare. Ma non da indicazioni su come concretamente questo diritto deve diventare effettivo. A questo riguardo ritengo opportuno ricordare che il MFE ha fornito un contributo che indica la strada da percorrere, sviluppando la tesi secondo cui il piano che i governi liberaldemocratici sono chiamati ad inserire nei loro programmi per affrontare le sfide della globalizzazione, della rivoluzione tecnico-scientifica e della questione ambientale deve avere carattere costituzionale.

 

  

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