Riportiamo stralci della relazione di Giovanni Salpietro -membro MFE Pavia e della direzione nazionale GFE presso l’Ufficio del Dibattito- al primo evento di cinque sessioni del progetto CrossroadsEurope coordinato dall’UEF a cui ha partecipato l’MFE.
Qui la registrazione dell’evento.


Nella mia relazione cercherò di presentare il quadro complessivo di come i cambiamenti climatici nel Mediterraneo abbiano conseguenze importanti sugli equilibri politici di questa area e pongono l’Europa e la politica europea di fronte ad una necessità ormai indifferibile di assumere un ruolo da protagonista per risolvere e affrontare tali questioni.

Come punto di partenza di questa discussione vorrei presentare e riassumere quanto avvenuto in Siria negli ultimi anni. La Siria rappresenta l’esempio più evidente di quanto i cambiamenti climatici possano avere conseguenze, anche drammatiche, sugli equilibri nel Mediterraneo.

A metà degli anni ’90 la Siria festeggiava “l’autosufficienza” nella produzione di grano, grazie ad alcune politiche di investimenti effettuati dal governo siriano di Hassad padre; va tenuto conto che, come tipicamente si verifica nei paesi in via di sviluppo, l’agricoltura in Siria rappresentava, prima della crisi, una fetta importante del PIL, arrivando ad un massimo di circa il 25% del prodotto interno lordo. Tuttavia, questa autosufficienza era comunque resa precaria dalla forte dipendenza dalle precipitazioni annuali per l’approvvigionamento delle risorse d’acqua.

La situazione comincia ad aggravarsi a metà degli anni 2000. A partire infatti dal 2006, come riportato dalle stesse autorità siriane dell’epoca, la Siria è stata caratterizzata da una siccità prolungata su più anni che ha avuto conseguenze estremamente gravi per la produzione agricola. (…) In termini economici il risultato è stato devastante, il settore agricolo è passato dal 25% PIL al 17%; il prezzo dei beni alimentari più economici è aumentato a causa della necessità di compensare la produzione interna con le importazioni dall’estero. Molti piccoli produttori agricoli hanno avuto, anche per più anni, un raccolto nullo o quasi nullo, causando un aumento della povertà che ha causato un primo fenomeno di migrazione molto repentino dalle aree rurali alle periferie urbane, con un conseguente aumento dei problemi sociali, disoccupazione e malessere. Da queste condizioni sono poi scaturiti fattori di malcontento verso il governo.

Sicuramente poi l’esplosione del conflitto in Siria è anche legata a fattori ulteriori (ragioni etniche, religiose o politiche), ma sicuramente le conseguenze negative dei cambiamenti climatici hanno giocato un ruolo importante (…).

Se la Siria rappresenta l’ambito dove abbiamo assistito alle conseguenze più estreme degli effetti del cambiamento climatico e della desertificazione, i dati su altre aree del Mediterraneo non sembrano comunque essere rassicuranti. (…)

Dati altrettanto allarmanti provengono anche dalle aree del Medio Oriente, caratterizzate da problemi di siccità simili a quelli che abbiamo visto nel caso siriano. In Turchia, si ritiene che il 60% del territorio presenti caratteristiche favorevoli alla desertificazione (specialmente le aree di confine con Siria e Iraq) e circa metà del territorio turco è incline a un rischio moderato o alto di desertificazione. In Arabia saudita in alcune aree del sud ovest tra il 1987 e il 2002 si è perso circa il 46% della vegetazione. Una regione della Giordania è considerata a grave rischio di desertificazione. In Iran il rischio di desertificazione è diventato più alto a partire dagli anni ’90.

(…) Alcuni studi, accettati dall’IPCC, stimano che entro il 2050 le persone a rischio di essere coinvolte in fenomeni di migrazione per ragioni climatiche saranno 200 milioni

(…) Lo stesso rapporto dell’IPCC del 2019 sottolinea come ci siano in Europa diverse aree vulnerabili alla desertificazione: in particolare parte della penisola iberica, l’Italia meridionale, parte della Grecia, Cipro e alcune regioni di Bulgaria e Romania. A riguardo vi invito a leggere la relazione speciale n. 33 del 2018 della Corte dei Conti Europea, che oltre a presentare alcuni dati scientifici sui rischi della desertificazione in Europa, mette anche in evidenza alcune criticità rispetto alle politiche adottate dall’UE per affrontare questo problema, basti pensare che, e riporto da quanto contenuto nella relazione: “non esiste una strategia, a livello dell’UE, per far fronte alla desertificazione e al degrado del suolo. C’è invece una serie di strategie, piani d’azione e programmi di spesa, come la politica agricola comune, la strategia forestale dell’UE o la strategia dell’UE sull’adattamento ai cambiamenti climatici, che sono pertinenti ai fini della lotta contro la desertificazione, ma non specificamente mirati ad essa.”

Tornando invece al ruolo dell’UE al di fuori dei confini europei, bisogna interrogarsi su quali siano negli ultimi anni le iniziative dell’Unione nella lotta ai cambiamenti climatici e alla desertificazione nelle aree del Mediterraneo. Anche in questo caso va sottolineato che non c’è un’unica politica attiva a livello europeo sul tema, ma una serie di iniziative diversificate che hanno come scopo un sostegno allo sviluppo sostenibile. (…)

L’obiettivo complessivo dell’UE è quello di riuscire a mobilitare risorse (pubbliche e private) per un valore pari a 100 miliardi di dollari a sostegno dei paesi in via di sviluppo (obiettivo prorogato al 2025).

Tuttavia, vanno sottolineati alcuni limiti di queste iniziative, che sicuramente sono lodevoli, ma lasciano comunque delle perplessità rispetto all’efficacia. Innanzitutto, bisogna considerare che le risorse messe direttamente a disposizione dall’Unione europea sono limitate, e che un ruolo lo giocano comunque le singole iniziative nazionali a seconda delle diverse politiche estere e dei rapporti bilaterali tra i paesi europei e quelli in via di sviluppo. Va sottolineato che non sempre queste politiche nazionali sono coordinate o perseguono lo stesso obiettivo, dal momento che potrebbero esserci interessi diversi tra i singoli stati membri dell’UE. In secondo luogo, ma questo è un problema più ampio che riguarda in generale l’aiuto economico ai paesi in via di sviluppo, non sempre è facile garantire gli strumenti di controllo su come i fondi sono effettivamente spesi dai paesi aiutati; non si possono nascondere fenomeni di corruzione, poca trasparenza o in generale di cattiva gestione degli aiuti ricevuti.

Se guardiamo alle prospettive future, sicuramente non si può negare che i cambiamenti climatici saranno una sfida sempre più complessa da gestire per la politica europea, e in virtù di questo dobbiamo porci l’interrogativo su che ruolo dovrà avere l’Europa. Sappiamo perfettamente che la tutela dell’ambiente è una sfida che va oltre i poteri dei singoli stati nazionali, sia da un punto di vista delle risorse economiche che sono necessarie per la riconversione energetica, ma anche per la necessità di dover far nascere dei tavoli diplomatici anche con altre grandi potenze globali -la Cina, l’India, il Brasile e gli altri paesi emergenti- che ovviamente hanno tutti i diritti ad uno sviluppo economico e tecnologico che li porti nel tempo alla pari con i paesi occidentali, ma questo sviluppo non ne può seguire lo stesso percorso e deve tener conto della tutela dell’ambiente come valore di riferimento.

Per fare ciò serve un’Europa in grado di avere una voce coerente in politica estera e che non sia subalterna alle volontà e alle divisioni degli stati nazionali. Affinché la politica europea sia in grado di affrontare sfide di questo calibro non è più rimandabile l’idea di dotare le istituzioni europee di una sovranità su queste materie: dove per sovranità si intende la legittimità (democratica) e il potere di assumere iniziative politiche di portarle a compimento nel modo più efficace possibile. (…)

Sul piano internazionale sicuramente l’elezione di Biden alla presidenza degli Stati Uniti, accompagnato dall’annuncio di voler far rientrare gli Stati Uniti nell’accordo di Parigi, costituisce una notizia positiva, la quale però non deve far pensare agli europei che il problema dei cambiamenti climatici possa essere risolto dal solo alleato americano. L’Europa deve fare la sua parte e deve assumere un ruolo di guida insieme agli altri partner.

Alla luce di tutto questo, la Conferenza sul Futuro dell’Europa, nell’augurio che possa partire nel più breve tempo possibile, è sicuramente l’occasione per porre questi temi e per avviare un processo di riforma delle istituzioni europee per dotarle della forza necessaria ad affrontare le sfide dei prossimi anni, di cui sicuramente il clima e le sue conseguenze sugli equilibri globali rappresentano una componente.

 

  

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