Nei momenti storici di grande cambiamento, se le comunità vogliono governare i nuovi processi ed evitare di cadere in un declino irreversibile, devono saper adattare le loro istituzioni. L’Unione europea, dopo la fine della guerra fredda, ha adattato le sue istituzioni con un primo passo cruciale creando l’unione monetaria; ma non è stata in grado di concordare una vera politica fiscale e sociale per l’euro. Più tardi, con il Trattato di Lisbona, ha rafforzato il ruolo legislativo del Parlamento europeo, ma anche in questo caso non è riuscita a creare una vera unione economica e politica per completare l’euro.

La Conferenza sul futuro dell’Europa rappresenta un’occasione unica per dare all’Unione gli strumenti necessari per prendersi cura degli interessi dei propri cittadini e vincere molte delle sfide globali che i suoi Stati membri non sono più in grado di affrontare Alcuni di questi strumenti indispensabili, e in particolare la creazione di una capacità fiscale dell’Unione ed il superamento della regola dell’unanimità in politica estera, presuppongono un superamento del quadro giuridico attuale e non sono realizzabili attraverso gli strumenti della cooperazione rafforzata o delle clausole passerella. Si pone pertanto ineluttabile la prospettiva di una revisione dei Trattati europei che da ormai quindici anni è considerata pressoché un tabù almeno da parte di alcuni Stati membri, nonostante numerose crisi abbiano già ampiamente dimostrato l’inadeguatezza e le lacune dell’ordinamento giuridico esistente.

La radice del problema è politica, perché è legata alle differenti visioni e aspettative che gli Stati membri hanno maturato dopo l’avvio dell’unione monetaria ed i cambiamenti derivati dalla caduta del blocco sovietico e dall’allargamento dell’UE ai Paesi centro-orientali. Alcuni governi si ostinano a credere che l’Unione europea debba limitarsi a fornire una serie di servizi a favore degli Stati nazionali, in particolare il mercato interno e la moneta unica. In altri Paesi sta invece emergendo la consapevolezza che l’incompletezza del progetto di integrazione europea sia ormai divenuta insostenibile e metta in pericola la loro stabilità politica e benessere economico nel lungo periodo.

Il problema politico è rafforzato dal fatto che portare a termine una riforma del diritto primario UE, in particolare attraverso nuovi e sostanziali trasferimenti di competenza all’Unione, risulta particolarmente complesso a causa della procedura di revisione di cui all’art. 48 TUE. Quest’ultima prevede che il governo di qualsiasi Stato membro, il Parlamento europeo o la Commissione possano avanzare una proposta di modifica. Dopo l’eventuale convocazione di una Convenzione (composta da rappresentanti dei governi, dei Parlamenti nazionali, della Commissione e del Parlamento europeo), che adotterà una raccomandazione al riguardo, sarà una conferenza intergovernativa a decidere all’unanimità il testo definitivo di riforma dei trattati. Deve seguire la ratifica da parte di tutti gli Stati membri, tramite il voto dei parlamenti nazionali o referendum confermativo. In conclusione, sia la fase europea di revisione dei trattati (negoziato), che quella nazionale (ratifica) richiede il raggiungimento dell’unanimità tra tutti gli Stati membri, il che fornisce a ciascuno di essi un diritto di veto.

Dando uno sguardo all’esperienza delle altre organizzazioni internazionali (categoria a cui ancora appartiene l’Unione europea) è interessante notare come la regola dell’unanimità per la modifica del loro funzionamento sia in realtà alquanto rara. I trattati che istituiscono le Nazioni Unite, l’Organizzazione mondiale del commercio, l’Organizzazione mondiale della sanità ed il Consiglio d’Europa richiedono infatti solo la maggioranza qualificati degli Stati membri per l’adozione di un emendamento. Per quanto riguarda invece l’esperienza degli Stati federati, anche le costituzioni più rigide, come quella tedesca o americana, prevedono il voto a maggioranza qualificata per l’approvazione di emendamenti.

Perché allora l’Unione europea si comporta diversamente?
La procedura di revisione dei Trattati UE fondata sul consenso di tutti gli Stati membri è stata a lungo presentata come una necessità per legittimare il processo di integrazione europea, mentre i rischi derivanti dell’uso incrociato del diritto di veto sono stati spesso sminuiti come un “falso problema”, dal momento che in 70 anni di storia l’ordinamento europeo è riuscito comunque ad evolversi. In realtà, il consolidamento della regola dell’unanimità si spiega soprattutto alla luce della natura del processo di integrazione europea e delle sue potenzialità. Gli Stati hanno voluto mantenere un diritto di veto su ogni proposta di modifica sostanziale dell’ordinamento UE, proprio perché, a differenza delle organizzazioni internazionali classiche, il processo di integrazione è stato in grado di intaccare gran parte delle competenze nazionali, fino a creare un’organizzazione sovranazionale fortemente integrata e dotata di ampi poteri (anche se limitati e revocabili). Il diritto di veto ha pertanto lo scopo di contenere o comunque controllare le spinte federaliste del processo di integrazione europea.

È chiaro che riformare all’unanimità un’organizzazione composta da 27 Stati membri con interessi e visioni sul futuro dell’Unione profondamente diverse sia del tutto impossibile. D’altra parte, negli ultimi trent’anni la ricerca del consenso unanime nelle conferenze intergovernative ha fatto sì che quest’ultime si concludessero quasi sempre con compromessi al ribasso e la previsione di escamotage(quali opt-out, accordi separati e procedure parallele), onde accontentare tutte le parti. La convocazione di ben cinque conferenze intergovernative tra il 1992 e il 2007 non è la prova che l’Unione europea resta riformabile nonostante l’unanimità, ma al contrario che a causa dell’unanimità è impossibile adottare riforme durature che le permettono di funzionare in modo efficiente a servizio dei cittadini.

Come è stato anticipato, modificare a maggioranza dei Trattati non è un’opzione contemplata nell’attuale quadro giuridico UE. La stessa Corte di giustizia ha affermato nella sua giurisprudenza consolidata che la procedura di emendamento di cui all’art 48 TUE non è suscettibile di deroghe. La soluzione non può essere allora trovata all’interno dell’ordinamento UE, ma deve scaturire dalla volontà politica di un gruppo di Stati membri di procedere verso l’unione politica. Questi potrebbero in prima istanza fare ricorso al diritto internazionale generale a cui anche l’Unione, quale organizzazione internazionale, è sottoposta. Potrebbe venire in soccorso l’art. 30, par. 4 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati che disciplina i diritti e gli obblighi degli Stati parti di trattati successivi vertenti sulla stessa materia. Quando un trattato multilaterale viene aggiornato senza il consenso di tutte le parti originarie, è previsto che nelle relazioni fra gli Stati parti di entrambi gli accordi si applichi il trattato successivo, mentre nelle relazioni tra gli Stati parte del trattato di modifica e gli Stati che non vi hanno preso parte si applicherà il primo Trattato. In altre parole la modifica dei trattati UE a maggioranza porterebbe alla creazione di due gruppi di Stati: chi aderisce al nuovo trattato Europa 2.0 e chi rimane vincolato solo ai trattati attuali dell’Europa 1.0.

Resta la difficoltà di far convivere per un periodo transitorio il funzionamento delle due Unioni. In teoria, le istituzioni UE potrebbero fare tesoro dell’esperienza pregressa di funzionamento dell’Unione a geometria variabile (in aree quali Schengen, l’Unione economica e monetaria, la cooperazione nell’ambito della giustizia penale) per permettere la convivenza delle due Unioni per un periodo più o meno lungo. In realtà se un gruppo di Stati politicamente rilevante decidesse di varare una riforma ambiziosa dei Trattati UE senza la zavorra del diritto di veto dei governi più euroscettici, è improbabile che alcuni Stati membri decidano di restare fuori a lungo dalla nuova Unione. Il sostegno formale di alcune istituzioni europee, in particolare del Parlamento e della Commissione, consoliderebbe la legittimazione politica di questo processo.

Un’alternativa sarebbe infine la stipulazione di un accordo politico separato dai Trattati UE esistenti, sul modello del Trattato sul Meccanismo europeo di Stabilità o il Trattato sulla Stabilità, il Coordinamento e la Governance, tra gli Stati membri desiderosi di trasferire nuove competenze a livello europeo. Tale Political Compact potrebbe avere l’ambizione di creare nuovi strumenti comuni in grado di esercitare poteri sovrani in ambiti quale la politica fiscale e quella di difesa. Sarebbe necessario evidentemente coinvolgere le istituzioni politiche dell’Unione, in particolare il Parlamento europeo e la Commissione. Anche i governi dovrebbero partecipare, ma accettando di prendere decisioni a maggioranza.

Qualunque soluzione si debba adottare, sulla base delle condizioni che si verificheranno nel processo, il punto fondamentale è che la modifica dei Trattati e il superamento dei vincoli posti dall’art.48 TUE non sono un problema giuridico, ma politico. Per questo è importante che l’ipotesi di una spaccatura che deriverebbe dalla creazione di un trattato di modifica o un trattato separato, comunque da adottarsi a maggioranza, emerga già durante la Conferenza sul futuro dell’Europa, insieme alla volontà politica da parte di alcuni degli Stati membri di costruire una sovranità europea in alcuni settori chiave. E’ questo l’unico modo per non farsi bloccare dall’opposizione di quei governi ancorati alla visione intergovernativa e all’esercizio esclusivo della sovranità politica a livello nazionale.

  

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