Uno dei film con i più alti incassi in rapporto al budget speso è Top Gun, uscito nelle sale nel 1986. Fruttò ai produttori circa 24 volte la somma investita ($ 357,3 mln contro $ 15 mln). Si sa, in questi casi l’appetito per un remake che replichi il successo finanziario è molto forte. Ci sono voluti più di trent’anni perché cominciassero le riprese per il sequel e a luglio 2019 è uscito un primo trailer della nuova uscita, Top Gun: Maverick. Lì gli appassionati hanno notato un dettaglio, con un forte significato politico: sul retro della giacca del pilota protagonista – Pete Mitchel, detto appunto “Maverick” (impersonato da Tom Cruise) – non apparivano come nel film del 1986 le bandiere di Taiwan e Giappone, ma dei vaghi simboli con nessun rimando specifico. Poi a maggio di quest’anno il film è uscito, e le bandiere di Taiwan e Giappone sul retro della giacca di “Maverick” hanno fatto bella mostra. La ragione del cambio di scena è presto detta: all’inizio della programmazione Tencent, la più grande impresa cinese dell’intrattenimento multimediale, aveva investito nel budget del film circa $ 20 mln, il 12,5% del totale, perciò gli sceneggiatori si erano in un primo momento prodigati a rimuovere ciò che non gradivano i finanziatori cinesi; tuttavia, in corso d’opera Tencent si è sfilata, per timore che il governo di Pechino prendesse comunque di cattivo occhio un film che, bandiere o non bandiere, esalta le gesta dell’esercito USA. In assenza del finanziamento di Tencent, le bandiere di Taiwan e Giappone sono tornate, ma il film in Cina non è poi proprio uscito.

«Gli aspetti politici di ciò che succede nel mondo del cinema sono il diretto riflesso di ciò che succede nella politica vera e propria» Com’è evidente, gli aspetti politici di ciò che succede nel mondo del cinema sono il diretto riflesso di ciò che succede nella politica vera e propria. La “one-China policy” degli USA (la posizione per cui si sostiene che la Repubblica Popolare Cinese detenga la sovranità dell’isola di Taiwan), a mano a mano che la Cina ha accresciuto negli ultimi decenni la sua posizione come attore globale di primaria rilevanza, è stata affermata più e più volte. Tanto che fino a luglio di quest’anno la visita della più alta carica degli USA a Taiwan rimaneva quella dell’allora Presidente della Camera dei Rappresentanti Newt Gingrich nel 1997. Ma solo fino a luglio scorso perché, poche settimane dopo il ritorno dell’apparizione della bandiera di Taiwan sulla giacca di “Maverick”, la Presidente della Camera dei Rappresentanti Nancy Pelosi si è recata sull’isola, dove ha anche incontrato la Presidente Tsai Ing-wen. La reazione della Repubblica Popolare Cinese non si è fatta attendere.

Taiwan è oggi l’ultima arena di scontro in un mondo multipolare che sta vedendo il ritorno su larga scala della violenza, solo minacciata o anche esercitata, dopo che la caduta del Muro di Berlino e il crollo dell’URSS avevano portato a decenni di relativa stabilità. La guerra russa in Ucraina è un altro tragico esempio. Siamo quindi lontani dal 1992, quando Francis Fukuyama, ne “La fine della storia e l’ultimo uomo”, professava che le democrazie liberali si sarebbero affermate senza freni come la forma finale di governo dell’umanità. Siamo lontani anche dal 2000, quando George W. Bush, durante la campagna elettorale per le presidenziali, descrisse il libero commercio come un “importante alleato in quella che Reagan chiamava una ‘strategia diretta per la libertà’. Se commerci in modo libero con la Cina, il tempo è dalla tua parte”. Quella scommessa, che ha portato anche all’ingresso della Cina nel WTO nel 2001, è stata persa. Persa perché la classe dirigente di Pechino ha saputo sfruttare il modello di globalizzazione vigente a vantaggio del proprio potere: sovvenzionando imprese di Stato cinesi e nazionalizzando quelle private che diventano troppo ingombranti; controllando flussi di capitale e tassi di cambio; violando diritti di proprietà intellettuale. Si è dimostrato così che non basta il libero commercio per promuovere la libertà, così come l’esportazione della democrazia con le armi ha avuto scarso successo. È evidente oggi che le condizioni per l’insediamento della democrazia liberale sono molto più ampie.

Ma, oltre al caso cinese, altri indicatori mostrano che l’attuale modello di globalizzazione negli ultimi 15/20 anni non ha nel complesso avvicinato i cittadini del mondo alla democrazia liberale. Varie ricerche (come il Democracy Index dell’Economist o Freedom in the World di Freedom House) sostengono che lo stato di salute della democrazia nel mondo è da anni in calo; analisi che comparano fra loro sistemi valoriali (come la World Values Survey) dànno in progressivo distacco i valori occidentali dal resto del mondo.

Non solo: stringendo lo sguardo su singoli Paesi occidentali, da un lato la polarizzazione esistente negli USA ha visto un ultimo passaggio di consegne alla Presidenza accompagnato da un tentativo di colpo di Stato e, dall’altro, in Europa a ogni elezione presidenziale francese si ripete il rischio che l’UE perda di fatto la sua unità (per non parlare del caso italiano).

In questo contesto, risulta lampante che è da ripensare il modello di globalizzazione. Per decenni ci si è illusi che non si potesse né si dovesse governare la globalizzazione, perché questa avrebbe senza fallo, oltre che creato ricchezza, promosso i valori della democrazia liberale. Si è inoltre ritenuto che l’interdipendenza economica ci avrebbe irrimediabilmente protetto da conflitti armati, ma il pensiero di poter perdere i flussi di denaro provenienti dalla vendita del gas in Europa non ha frenato il 24 febbraio scorso Putin dall’invadere l’Ucraina.

«La soluzione non può essere quella di rinchiudersi in un compartimento stagno» Tuttavia, la soluzione non può essere quella di rinchiudersi in un compartimento stagno. Non basteranno il re-shoring e il friends-shoring, di cui ha parlato anche la Segretaria del Tesoro USA Janet Yellen l’aprile scorso, a proteggere e isolare le democrazie liberali dai rischi globali oggi presenti. Nel breve termine, per evitare imbarazzanti figure come la mancanza di mascherine nella primavera 2020, in alcuni casi potranno servire, ma questi rischiano anche di sollevare problemi che pensavamo sepolti come l’inflazione, in Europa in queste settimane più legata a strozzature e convulsioni dell’offerta che a eccessi di domanda.

Se dunque, riprendendo il trilemma di Rodrik, non possiamo avere allo stesso tempo globalizzazione, democrazia e sovranità nazionali, serve oggi rinunciare alle illusorie sovranità nazionali. Serve perciò governare la globalizzazione, perché nessuno Stato da solo è in grado di garantire a tutte le sue cittadine e i suoi cittadini un’occupazione di qualità né di salvarsi dalla crisi climatica o promuovere una transizione digitale che non sia dipendente dalle multinazionali del digitale e hi-tech. Né di garantire loro pace e sicurezza, tenendo conto dell’insegnamento di Ventotene: la divisione del genere umano in Stati sovrani indipendenti è la condizione fondamentale per la quale scoppiano le guerre. Senza una prospettiva federale, la democrazia liberale nel mondo, dunque, ha una strada difficile.

La sete di democrazia e libertà, eppure, oggi esiste. Il sangue versato per quei valori dagli ucraini, già dal 2014 e ancora più tragicamente oggi, è lì a dimostrarcelo.

 

 

  

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