L'epoca della conflittualità a livello globale. Fonte: Vecteezy.com

Tra le certezze che i recenti avvenimenti hanno ridotto in frantumi, vi è quella che il mondo sia diventato un unico mercato ben funzionante, nel quale i fattori produttivi – materie prime, capitale, lavoro – trovano la miglior combinazione, in modo da assicurare – per lo meno a chi ha potere di acquisto sufficiente – ampia disponibilità di qualsiasi bene o servizio necessario a soddisfare le necessità primarie, e anche i bisogni voluttuari.

Il mercato non è una giungla nella quale il potere pubblico non deve addentrarsi: è un’istituzione che stabilisce e rende esecutive le regole che ne assicurano il funzionamento, e interviene a correggere i fallimenti e a dirimere le controversie tra gli attori: ad esempio occupandosi della fornitura di alcuni beni o servizi fondamentali che la libera iniziativa dei privati non è in grado di generare, e provvedendo a una redistribuzione dei redditi per rendere domanda effettiva la domanda potenziale dei cittadini meno abbienti.

Se, con la globalizzazione, siamo arrivati a un’integrazione economica senza precedenti, questa, in assenza di un’istituzione di governo globale[1], si è giocoforza rivelata fragile, sia perché vaste aree del mondo ancora non ne godono i benefici, sia perché, se qualche ingranaggio si guasta la riparazione non è immediata e può addirittura non avvenire.

Correndo il rischio di una semplificazione eccessiva, vorrei indicare due guasti avvenuti di recente. Il primo è il Covid-19. Lo stop improvviso alla possibilità di commerciare a livello globale ha sorpreso chi aveva costruito un modello produttivo fondato sull’apertura agli scambi internazionali. Tutti abbiamo avuto esperienza di tempi di attesa ineditamente lunghi per acquistare diversi beni. Abbiamo scoperto che il 60% della produzione mondiale dei fondamentali microchip e oltre il 90% dei microchip di punta (definiti come spessi al massimo 7 nanometri) avviene nell’isola di Taiwan. Se i trasporti non funzionano, i chip non arrivano, e moltissimi settori produttivi vanno in difficoltà.

Il secondo guasto è il grave inasprimento dei rapporti tra le grandi potenze, acuitosi in seguito al scellerato avvio dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Ci si rende conto che essere legati a doppio filo per la fornitura di energia a uno stato “canaglia” è pericoloso, e che gli stati compratori di fatto sono finanziatori della guerra di Putin. Ritorna inoltre evidente agli stati la necessità di tutelare la sicurezza, con maggiori investimenti nel settore della difesa, perché, contrariamente a quanto scrisse Fukuyama, la storia non è finita.

La colpevole ambiguità della Cina sulla guerra in Ucraina non aiuta. E non va dimenticato che Xi-Jinping stesso non fa mistero della volontà di annettere Taiwan con l’uso della forza. Mantenendoci nell’ambito della specificità di Taiwan appena descritta, pensiamo a cosa significherebbe questo per l’economia globale.

Se il mercato mondiale si rompe, e non è all’ordine del giorno la creazione di un’istituzione che ne ripari i guasti, non resta che restringere l’area da considerarsi un mercato affidabile. Non è più la sola l’iniziativa privata a stabilire chi produce un bene strategico, e dove. Il ruolo dei governi adesso è centrale per definire ciò che è necessario ottenere all’interno del nuovo – più ristretto – mercato di riferimento, e per finanziare con somme enormi la formazione delle competenze necessarie a raggiungere l’obiettivo in un tempo stabilito.

Sono note l’ostilità di Xi-Jinping verso gli imprenditori cinesi troppo “indipendenti”, come Jack Ma e il suo Alibaba, e la sua decisione di rendere il governo e il partito comunista il centro di ogni piano di sviluppo economico. La necessità di produrre autonomamente, da parte cinese, beni fondamentali è diventata più stringente in seguito alla decisione dell’amministrazione americana guidata da Joe Biden di limitare l’esportazione verso la Cina di chip e della tecnologia necessaria a produrli. Si noti che non si tratta degli Stati Uniti dell’outsider Trump, dell’America First e del Make America Great Again, ma degli Stati Uniti a guida democratica con un presidente avente lunghissima esperienza politica, per i quali non è diverso l’interesse a prevalere sul rivale cinese.

Gli USA non si limitano a questo. L’Inflation Reduction Act e il Chips and Science Act approvati lo scorso agosto prevedono lo stanziamento di somme di denaro pubblico senza limiti fissati ex ante per sussidiare la produzione nel territorio degli USA delle tecnologie più avanzate, anche dal punto di vista della tutela dell’ambiente.

Il Giappone, abbandonando il pacifismo post Seconda guerra mondiale, ha appena approvato di raddoppiare la propria spesa militare, dall’1 al 2% del PIL.

E l’Europa?

Noi europei ci siamo illusi che la guerra, almeno sul suolo europeo, fosse una cosa del passato, e che la geopolitica non fosse così rilevante per lo sviluppo dell’economia. Abbiamo quindi accettato di dipendere dalla Russia per l’import di energia, di dipendere dagli USA per la nostra sicurezza, e di essere legati alla Cina per lo scambio di merci (come avremmo fatto in questi anni senza le mascherine cinesi?), quando si è ora giunti, forse, alla fine del processo di crescente integrazione della Cina nel sistema occidentale.

Mossi dalla necessità, i paesi europei più esposti negli ultimi mesi hanno avviato una faticosa opera di abbandono del gas russo, e dopo mesi si è arrivati a fissare un tetto al prezzo del gas. Ma un’assunzione di responsabilità in tema di difesa comune ancora manca drammaticamente, e dobbiamo ringraziare la NATO, e gli USA che danno credibilità a questa alleanza, se ci sentiamo ancora oggi relativamente sicuri in casa nostra.

La politica industriale europea, se esiste, è sempre troppo debole e sempre in ritardo. Questo è inevitabile, fino a che il potere è nelle mani dei governi nazionali, che in alcuni ambiti possono eventualmente dare all’unanimità mandato alla Commissione europea di prendere delle iniziative. Quali sono le produzioni che riteniamo strategiche e che vogliamo quindi rilanciare in Europa? Siamo pronti a raccogliere e utilizzare fondi a livello europeo secondo un orientamento politico comune o al termine di Next Generation EU torneremo al divieto di fare debito sovranazionale? Non è forse necessario ripensare alle regole di tutela della concorrenza e di divieto di aiuti di stato, che limitano la possibilità di creare i necessari “Campioni europei” nei settori più innovativi e di sostenerli almeno inizialmente anche con risorse pubbliche? Per riorganizzare il proprio modello produttivo in un tempo di forti tensioni geo-politiche, è necessario un governo federale, che decida rapidamente e finanzi le scelte strategiche con uno sguardo di lungo periodo. Invece, ci stiamo condannando ad andare più lenti delle altre grandi aree mondiali.

Nel frattempo, molte grandi imprese europee stanno valutando di andare a impiantare attività produttive negli USA, dove l’energia costa meno e dove riceverebbero dal governo americano incentivi pubblici di dimensioni eccezionali.

Il ministro dell’Economia e vice-cancelliere tedesco Robert Habeck ha dichiarato: “È finita la fase in cui molti pensavano che i mercati comandassero e la politica dovesse starne fuori (…). Quando si tratta di energia, commercio, infrastrutture, non esistono decisioni impolitiche. Ora l’Europa deve riunire le proprie forze o ci perderemo tra le superpotenze di Cina e Stati Uniti”.

Per l’Italia, ancora una volta, si pone la questione fondamentale di dimostrarsi un partner affidabile per gli altri paesi europei in vista di nuove iniziative da intraprendere, con l’ambizione di essere al centro di una coalizione di stati che muovono verso la sovranità europea.

La presidente del Consiglio Meloni non viene da una tradizione federalista ma, scontrandosi con i problemi, pare stia assumendo coscienza che il quadro europeo è decisivo per l’Italia, in questo abbandonando la vecchia retorica utile a prendere voti in certi bacini elettorali, per chiedere invece un maggior ruolo europeo, una maggiore unità dell’Europa. E’ però in preda a una contraddizione che andrebbe prima o poi sciolta, perché continua anche a porsi come punto di riferimento di politici come il presidente polacco Morawiecki, che ha dichiarato di recente che la sua visione comune con Giorgia Meloni è di questo genere: «I polacchi e gli italiani sono stufi dei diktat della burocrazia europea. O c'è la regola dell'unanimità o c'è la tirannia del più forte. L'unanimità si basa sul principio che il voto di ogni Stato è ugualmente importante.» Chissà se la Presidente Meloni condivide ancora queste affermazioni.

 

[1] Non si intende trascurare la rilevanza dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, ma è evidente che condivide il difetto delle altre organizzazioni sovranazionali, regionali o mondiali che siano: quello di non avere poteri sufficienti

 

Tra le certezze che i recenti avvenimenti hanno ridotto in frantumi, vi è quella che il mondo sia diventato un unico mercato ben funzionante, nel quale i fattori produttivi – materie prime, capitale, lavoro – trovano la miglior combinazione, in modo da assicurare – per lo meno a chi ha potere di acquisto sufficiente – ampia disponibilità di qualsiasi bene o servizio necessario a soddisfare le necessità primarie, e anche i bisogni voluttuari.

Il mercato non è una giungla nella quale il potere pubblico non deve addentrarsi: è un’istituzione che stabilisce e rende esecutive le regole che ne assicurano il funzionamento, e interviene a correggere i fallimenti e a dirimere le controversie tra gli attori: ad esempio occupandosi della fornitura di alcuni beni o servizi fondamentali che la libera iniziativa dei privati non è in grado di generare, e provvedendo a una redistribuzione dei redditi per rendere domanda effettiva la domanda potenziale dei cittadini meno abbienti.

Se, con la globalizzazione, siamo arrivati a un’integrazione economica senza precedenti, questa, in assenza di un’istituzione di governo globale[1], si è giocoforza rivelata fragile, sia perché vaste aree del mondo ancora non ne godono i benefici, sia perché, se qualche ingranaggio si guasta la riparazione non è immediata e può addirittura non avvenire.

Correndo il rischio di una semplificazione eccessiva, vorrei indicare due guasti avvenuti di recente. Il primo è il Covid-19. Lo stop improvviso alla possibilità di commerciare a livello globale ha sorpreso chi aveva costruito un modello produttivo fondato sull’apertura agli scambi internazionali. Tutti abbiamo avuto esperienza di tempi di attesa ineditamente lunghi per acquistare diversi beni. Abbiamo scoperto che il 60% della produzione mondiale dei fondamentali microchip e oltre il 90% dei microchip di punta (definiti come spessi al massimo 7 nanometri) avviene nell’isola di Taiwan. Se i trasporti non funzionano, i chip non arrivano, e moltissimi settori produttivi vanno in difficoltà.

Il secondo guasto è il grave inasprimento dei rapporti tra le grandi potenze, acuitosi in seguito al scellerato avvio dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Ci si rende conto che essere legati a doppio filo per la fornitura di energia a uno stato “canaglia” è pericoloso, e che gli stati compratori di fatto sono finanziatori della guerra di Putin. Ritorna inoltre evidente agli stati la necessità di tutelare la sicurezza, con maggiori investimenti nel settore della difesa, perché, contrariamente a quanto scrisse Fukuyama, la storia non è finita.

La colpevole ambiguità della Cina sulla guerra in Ucraina non aiuta. E non va dimenticato che Xi-Jinping stesso non fa mistero della volontà di annettere Taiwan con l’uso della forza. Mantenendoci nell’ambito della specificità di Taiwan appena descritta, pensiamo a cosa significherebbe questo per l’economia globale.

Se il mercato mondiale si rompe, e non è all’ordine del giorno la creazione di un’istituzione che ne ripari i guasti, non resta che restringere l’area da considerarsi un mercato affidabile. Non è più la sola l’iniziativa privata a stabilire chi produce un bene strategico, e dove. Il ruolo dei governi adesso è centrale per definire ciò che è necessario ottenere all’interno del nuovo – più ristretto – mercato di riferimento, e per finanziare con somme enormi la formazione delle competenze necessarie a raggiungere l’obiettivo in un tempo stabilito.

Sono note l’ostilità di Xi-Jinping verso gli imprenditori cinesi troppo “indipendenti”, come Jack Ma e il suo Alibaba, e la sua decisione di rendere il governo e il partito comunista il centro di ogni piano di sviluppo economico. La necessità di produrre autonomamente, da parte cinese, beni fondamentali è diventata più stringente in seguito alla decisione dell’amministrazione americana guidata da Joe Biden di limitare l’esportazione verso la Cina di chip e della tecnologia necessaria a produrli. Si noti che non si tratta degli Stati Uniti dell’outsider Trump, dell’America First e del Make America Great Again, ma degli Stati Uniti a guida democratica con un presidente avente lunghissima esperienza politica, per i quali non è diverso l’interesse a prevalere sul rivale cinese.

Gli USA non si limitano a questo. L’Inflation Reduction Act e il Chips and Science Act approvati lo scorso agosto prevedono lo stanziamento di somme di denaro pubblico senza limiti fissati ex ante per sussidiare la produzione nel territorio degli USA delle tecnologie più avanzate, anche dal punto di vista della tutela dell’ambiente.

Il Giappone, abbandonando il pacifismo post Seconda guerra mondiale, ha appena approvato di raddoppiare la propria spesa militare, dall’1 al 2% del PIL.

E l’Europa?

Noi europei ci siamo illusi che la guerra, almeno sul suolo europeo, fosse una cosa del passato, e che la geopolitica non fosse così rilevante per lo sviluppo dell’economia. Abbiamo quindi accettato di dipendere dalla Russia per l’import di energia, di dipendere dagli USA per la nostra sicurezza, e di essere legati alla Cina per lo scambio di merci (come avremmo fatto in questi anni senza le mascherine cinesi?), quando si è ora giunti, forse, alla fine del processo di crescente integrazione della Cina nel sistema occidentale.

Mossi dalla necessità, i paesi europei più esposti negli ultimi mesi hanno avviato una faticosa opera di abbandono del gas russo, e dopo mesi si è arrivati a fissare un tetto al prezzo del gas. Ma un’assunzione di responsabilità in tema di difesa comune ancora manca drammaticamente, e dobbiamo ringraziare la NATO, e gli USA che danno credibilità a questa alleanza, se ci sentiamo ancora oggi relativamente sicuri in casa nostra.

La politica industriale europea, se esiste, è sempre troppo debole e sempre in ritardo. Questo è inevitabile, fino a che il potere è nelle mani dei governi nazionali, che in alcuni ambiti possono eventualmente dare all’unanimità mandato alla Commissione europea di prendere delle iniziative. Quali sono le produzioni che riteniamo strategiche e che vogliamo quindi rilanciare in Europa? Siamo pronti a raccogliere e utilizzare fondi a livello europeo secondo un orientamento politico comune o al termine di Next Generation EU torneremo al divieto di fare debito sovranazionale? Non è forse necessario ripensare alle regole di tutela della concorrenza e di divieto di aiuti di stato, che limitano la possibilità di creare i necessari “Campioni europei” nei settori più innovativi e di sostenerli almeno inizialmente anche con risorse pubbliche? Per riorganizzare il proprio modello produttivo in un tempo di forti tensioni geo-politiche, è necessario un governo federale, che decida rapidamente e finanzi le scelte strategiche con uno sguardo di lungo periodo. Invece, ci stiamo condannando ad andare più lenti delle altre grandi aree mondiali.

Nel frattempo, molte grandi imprese europee stanno valutando di andare a impiantare attività produttive negli USA, dove l’energia costa meno e dove riceverebbero dal governo americano incentivi pubblici di dimensioni eccezionali.

Il ministro dell’Economia e vice-cancelliere tedesco Robert Habeck ha dichiarato: “È finita la fase in cui molti pensavano che i mercati comandassero e la politica dovesse starne fuori (…). Quando si tratta di energia, commercio, infrastrutture, non esistono decisioni impolitiche. Ora l’Europa deve riunire le proprie forze o ci perderemo tra le superpotenze di Cina e Stati Uniti”.

Per l’Italia, ancora una volta, si pone la questione fondamentale di dimostrarsi un partner affidabile per gli altri paesi europei in vista di nuove iniziative da intraprendere, con l’ambizione di essere al centro di una coalizione di stati che muovono verso la sovranità europea.

La presidente del Consiglio Meloni non viene da una tradizione federalista ma, scontrandosi con i problemi, pare stia assumendo coscienza che il quadro europeo è decisivo per l’Italia, in questo abbandonando la vecchia retorica utile a prendere voti in certi bacini elettorali, per chiedere invece un maggior ruolo europeo, una maggiore unità dell’Europa. E’ però in preda a una contraddizione che andrebbe prima o poi sciolta, perché continua anche a porsi come punto di riferimento di politici come il presidente polacco Morawiecki, che ha dichiarato di recente che la sua visione comune con Giorgia Meloni è di questo genere: «I polacchi e gli italiani sono stufi dei diktat della burocrazia europea. O c'è la regola dell'unanimità o c'è la tirannia del più forte. L'unanimità si basa sul principio che il voto di ogni Stato è ugualmente importante.» Chissà se la Presidente Meloni condivide ancora queste affermazioni.


[1] Non si intende trascurare la rilevanza dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, ma è evidente che condivide il difetto delle altre organizzazioni sovranazionali, regionali o mondiali che siano: quello di non avere poteri sufficienti.

 

  

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Giornale del

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