Il documento della Commissione Europea sulla riforma del Patto di Stabilità e Crescita (PSC), reso noto il 9 novembre 2022, offre poche luci e molte ombre. Ignora quasi interamente le indicazioni ricevute da università e think tank nella consultazione pubblica aperta nel novembre 2021; e soprattutto che il contesto nel quale opera l’economia europea è globale, e sta evolvendo in maniera drammaticamente rapida. Il più importante errore del documento sta quindi nel non inquadrare la riforma del PSC all’interno del più ampio dibattito su quale ruolo intende assumere la UE nel mondo nel prossimo futuro. Cercherò di illustrare questo punto mettendo in evidenza luci ed ombre del documento.
  

Le luci

Uno dei punti nodali per costruire una genuina economia (e democrazia) sovranazionale, in altri termini per dare coerenza al disegno di un’Europa federale finalmente in grado di assumere decisioni reattive e pienamente legittimate, è costruire un sistema di monitoraggio della spesa pubblica sui vari livelli: locali, nazionali ed europeo.

In Europa abbiamo lo European Fiscal Board, con un ruolo meramente consultivo ed a budget-zero, senza una struttura ad-hoc di analisi dei dati. Ed abbiamo agenzie nazionali indipendenti di monitoraggio della spesa, nate in gran parte negli anni della riforma della governance europea. Un’idea semplice ma efficace per dare maggiore coerenza al sistema di formazione e governo della spesa in Europa sarebbe mettere queste istituzioni a sistema, trasformandole in articolazioni di un’agenzia multilivello di monitoraggio e consulenza sulla ripartizione dei carichi di debito fra i vari livelli di governo. Il documento della Commissione non accenna a tutto ciò, ma parla della necessità di “riconsiderare il mandato e il ruolo dello European Fiscal Board” (p. 10), anche alla luce di quello delle autorità nazionali. Sembra essere un’indicazione che si possa sperare di muoversi in tal senso. Non sarebbe una cosa da poco.

Altro merito del documento è che, pur non essendovi alcun riferimento ad una golden rule per lo scorporo degli investimenti strategici dal conteggio del deficit dei paesi membri (chiesta a gran voce nella consultazione pubblica), la valutazione sul grado di sostenibilità del debito, che si propone di effettuare su base pluriennale, lascia immaginare che verranno privilegiati gl’investimenti produttivi rispetto alla spesa improduttiva. Questo agevolerebbe lo spostamento delle singole economie verso la frontiera delle possibilità produttive, investendo nei settori che accrescano la produttività globale dei fattori.

Ultimo elemento positivo: il crescente grado di discrezionalità che si riserva la Commissione nella valutazione dei piani di spesa e rientro dal debito, da negoziare coi paesi membri. Questo però richiede che la novità sia ben spiegata e giustificata, per evitare che qualcuno approfitti del trasferimento a livello sovranazionale di un potere politico affidato ad organismi sostanzialmente tecnici per denunciare derive tecnocratiche, usate in passato nelle narrazioni antieuropee. Il che rende sempre più urgente affrontare il tema della riforma dei Trattati o del processo di costituzionalizzazione della loro revisione nell’ottica della fondazione di una effettiva democrazia sovranazionale.
  

Le ombre

Veniamo adesso agli aspetti carenti del documento col quale la Commissione ha inteso aprire il dibattito sulla riforma del PSC.

Il primo è che il mondo è profondamente cambiato rispetto ai temi della semplice riforma del Patto. Se un qualche tipo di sorveglianza macroeconomica è necessaria per assicurare resilienza all’euro e all’intera economia europea, oggi la priorità è far assumere alla UE quei caratteri di sovranità economica che le consentano di minimizzare gli effetti negativi della dipendenza da paesi esterni.

Se è vero che l’interdipendenza è globale e interessa tutte le aree del mondo, altrettanto vero è che l’Europa, in quanto economia di trasformazione, non può permettersi di isolarsi, in caso di crisi come l’attuale, dagli effetti negativi di tali interdipendenze. Il che implica costruire alleanze strategiche, che necessitano di investimenti colossali per la crescita (in Africa, America Latina, per la ricostruzione dell’Ucraina, per la stabilizzazione dello scacchiere mediorientale, etc). Inoltre, la serrata competizione internazionale per le risorse e per i mercati di sbocco impone investimenti altrettanto colossali in innovazione (tecnologica, di prodotto, processo, organizzazione, mercati, etc).

Tutto questo richiede ingenti risorse economiche. Non importa se a debito. Considerando che viviamo in un’era di saving glut, di eccesso di risparmio a livello globale in cerca di opportunità d’investimento stabile e profittevole, dovrebbe essere una priorità della UE creare uno strumento di debito, un safe asset, alternativo al Bond del Tesoro Usa che non serva (come quello) a finanziare spesa corrente ma orientato agl’investimenti in innovazione.

Esiste poi una crescente domanda di beni pubblici senza i quali la UE rischia nuovamente di frammentarsi: unione dell’energia, della sicurezza e difesa; un rinnovato sistema di infrastrutture di comunicazione e trasporto al passo con la proiezione futura della UE; infrastrutture culturali e sociali in grado di soddisfare i bisogni dei cittadini. Che non è più possibile affidare alle (diverse) capienze fiscali dei singoli paesi, pena l’implosione della labile coesione sovranazionale e la perdita di consenso verso l’identità e l’integrazione europea.

Dov’è tutto ciò nel documento della Commissione? Dov’è la battaglia, inevitabile e per noi perdente, contro l’espansione fiscale che gli USA (per controbilanciare la restrizione monetaria) stanno portando avanti con l’Inflation Reduction Act? Dove sono gli strumenti di assistenza finanziaria per favorire l’emergere del multilateralismo globale rafforzando le dinamiche regionali in Africa ed America Latina? Qual è il ruolo delle finanze pubbliche rispetto alla proposta di von der Leyen e Breton per un ‘fondo per la sovranità europea’?

Infine, non rimettere mano ai parametri del 3% e del 60% rischia di avere due conseguenze dannose. Primo: questi indicatori prescindono dal modo in cui i target sono raggiunti, se tramite riduzioni di spesa o aumento delle imposte. Ma i moltiplicatori fiscali sono asimmetrici rispetto a queste due modalità (il loro impatto sulle variazioni del reddito è cioè diverso); inoltre, gli aspetti distributivi di una o dell’altra scelta causano effetti potenzialmente distorsivi. Persistere nel fissare i target senza aggiungere nulla su come si preferisce che vengano raggiunti aumenta forse l’ownership nazionale delle scelte, ma indebolisce le prospettive macroeconomiche.

Secondo: rinunciare a metterli in discussione rischia di avere un impatto devastante in termini di comunicazione e consenso. Perché sarà facile affermare che la Commissione europea è ferma a dogmi irrealistici. Mantenere il tetto del 60%, anche se il sentiero di rientro sarà su base pluriennale e non automatica, implica un’austerità che determina diminuzione della qualità e quantità dei beni e servizi pubblici erogati ed il pericolo di dar vita a nuove narrazioni antieuropee; delle quali ci sembrerebbe, soprattutto in questo momento in cui è necessario rafforzare la sovranità europea, di dover sinceramente fare a meno.
  

In conclusione

Rispetto alle aspettative di riforma richieste dalla società civile e prospettate dal dibattito accademico, il documento della Commissione offre poche luci e molte ombre. Non chiarisce come sia possibile rafforzare la crescita, stagnante in gran parte del continente, rispetto alla (indubbia) necessità di garantire stabilità. Sembra di essere tornati ai dibattiti che precedettero la nascita dell’euro, invece che di parlare dall’alto di una serie impressionante di crisi che si sono succedute sul continente europeo e dalle quali riusciamo sistematicamente ad uscire in ritardo rispetto a tutti gli altri grandi aggregati economici e politici globali.

Si può affermare che la Commissione ha prodotto solo un primo documento col quale avviare un dibattito; che sta adesso a governi ed a Parlamento e Consiglio prendere le redini dei cambiamenti, anche costituzionali, necessari per portare avanti il disegno sopra delineato. Ma la Commissione ha potere d’iniziativa legislativa e, rispetto all’esigenza di rivedere una policy chiave come quella della gestione dell’economia in un sistema complesso, aperto ed interdipendente come la UE, ci si sarebbe potuti legittimamente aspettare che uscisse con le idee più chiare. E soprattutto rivolte al futuro, invece che al passato.

 

 

  

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