I rischi di un conflitto tra l’Occidente democratico e i regimi autoritari; di un’eventuale disgregazione incontrollata della Federazione Russa; della minaccia nucleare per il mondo.

Il racconto di quasi cinquecento giorni di scontri, morti e distruzione, che il continente europeo vive dall’inizio della folle e criminale aggressione russa all’Ucraina, sembrava aver trovato un punto di svolta lo scorso 24 giugno con la decisione di Yevgeny Prigozhin e dei suoi sottoposti della Brigata Wagner, la compagnia militare privata di mercenari russi, fiore all’occhiello dell’imperialismo putiniano, di rivoltarsi contro i vertici militari russi e di conseguenza contro il regime che li difendeva.

I contorni di questa vicenda risultano non ancora chiari ed è difficile trarre oggi conclusioni definitive a così breve distanza dall’accaduto. Si può però ragionare sul contesto nel quale si è prodotto questo evento, quello di una crisi militare russa, resasi ormai manifesta dopo mesi di invasione, che coinvolge il vertice politico incapace di porvi rimedio.

L’unico successo militare russo negli ultimi mesi è stato la conquista della cittadina di Bakhmut, per la quale gli occupanti hanno pagato un durissimo prezzo in termini di vite umane e di risorse. Proprio questo sforzo bellico ha acuito le conflittualità interne ed evidenziato le criticità di un’invasione mal pianificata e ancor peggio gestita.

Denunce pubbliche sprezzanti contro i vertici militari russi sono arrivate da Prigozhin a tutela dei propri soldati, usati a suo dire come vittime sacrificali in battaglia. La decisione di porre la Wagner e le altre compagnie militari private proprio sotto il comando di questi vertici, perdendo così potere e autonomia, è stata forse la motivazione finale per la ribellione.

I “traditori” della Wagner, così definiti da Putin e dalla propaganda di regime nelle ore della rivolta, per anni sono invece stati utilizzati come la principale arma non convenzionale della politica estera russa in varie parti del mondo, a dispetto di crimini e violazioni del diritto internazionale compiute. I suoi combattenti, in parte ex detenuti prelevati dalle prigioni russe, hanno acquisito uno status proprio di un corpo di élite, nonché l’assoluzione dai crimini pregressi.

L’epilogo della rivolta con la retromarcia della colonna militare della Wagner ormai giunta nei pressi di Mosca, l’intervento di mediazione di Lukashenko, nonché l’esilio di Prigozhin e dei “traditori” non redenti in Bielorussia, sono vicende ancora da chiarire. Risulta però evidente come la propaganda russa abbia coperto un regime fragile, tutt’altro che coeso internamente o amato dalla popolazione. Lo hanno testimoniato le immagini dell’avanzata incontrastata dei mezzi blindati della Wagner verso Mosca e quelle di incitamento della popolazione di Rostov ai soldati della Wagner che si ritiravano volontariamente dalla città.

I leader occidentali hanno seguito l’intero svolgimento del tentato golpe con imbarazzo e preoccupazione. Hanno ribadito la loro estraneità alla vicenda, in quanto questione di politica interna russa. Pur auspicando intimamente un cambio di regime, comprensibilmente temevano le conseguenze di una presa del potere in Russia dei mercenari della Wagner e un futuro politico totalmente incerto, ancor più preoccupante in un Paese con il più grande arsenale nucleare al mondo.

Ad inizio giugno è iniziata la controffensiva ucraina, agevolata dalla dotazione di nuovi mezzi militari americani ed europei e dalle difficoltà dei russi. Non è però facile seguirne quotidianamente gli sviluppi per via di notizie frammentarie dal fronte e della riservatezza del governo ucraino per non fornire vantaggi ai russi, specie dopo la fuga di notizie dagli apparati dell’intelligence USA su alcuni piani militari.

Il successo della controffensiva rassicurerebbe gli alleati occidentali di fronte alle rispettive opinioni pubbliche che l’Ucraina è in grado di vincere, come viene ripetutamente affermato dai loro leader in occasione dei vertici internazionali, e che le spese sostenute sono un sacrificio duro ma necessario. Per il governo ucraino è diventato fondamentale dimostrare che la fine della guerra può avvenire anche sul campo di battaglia o, perlomeno, che prima di sedersi a un eventuale tavolo negoziale ci sia spazio per un riassestamento che tolga a Putin la possibilità di dettare condizioni.

Per questi motivi non hanno avuto finora gli esiti attesi i tentativi compiuti dalla diplomazia vaticana per costruire interlocuzioni di pace con le due parti, attraverso i viaggi a Kiev e a Mosca del Cardinal Zuppi e la visita di Zelensky a Roma.

Ancora più marginale è l’influenza delle Nazioni Unite sulla guerra. L’assenza di un governo mondiale in grado di ergersi al di sopra delle parti in campo e garantire il rispetto del diritto internazionale risulta quanto mai evidente e disarmante. Farsesco il fatto che dal 1° aprile di quest’anno a presiedere il massimo organo esecutivo dell’ONU, il Consiglio di Sicurezza, sia proprio la Federazione Russa, responsabile di multiple trasgressioni della Carta delle Nazioni Unite, che dovrebbe invece far osservare.

Si tratta peraltro di un Paese il cui Presidente è oggetto da marzo di un mandato di cattura internazionale da parte della Corte Penale Internazionale per crimini di guerra, in particolare per la deportazione in Russia, nei primi mesi dell’invasione, di bambini ucraini delle zone occupate.

L’incapacità dell’attuale sistema internazionale di far rispettare le regole comuni traspare anche da azioni discutibili come la scelta britannica di fornire proiettili per carri armati che contengono uranio impoverito o la decisione del Presidente USA Biden di rifornire l’esercito ucraino di bombe a grappolo. Evidentemente non può essere un alibi il contemporaneo uso di questi strumenti da parte dei russi, né la mancata adesione ad es. alla Convenzione ONU che proibisce l’uso delle bombe a grappolo da parte della Federazione Russa, dell’Ucraina e degli USA.

La comunità internazionale è sempre più divisa e frammentata e pochi Stati continentali possono esercitare un ruolo attivo in essa, da qui il confronto tra USA e Cina per la supremazia a livello mondiale. La Federazione Russa, pur nutrendo aspirazioni imperialistiche, di fatto è un vassallo economico della Cina, che le riconosce una partnership “senza limiti” come accordato dal Presidente Xi Jinping in visita a Mosca ma non l’alleanza militare. Ne sono testimonianza tanto i continui moniti cinesi sul rischio nucleare quanto l’assordante silenzio cinese nelle ore del tentato golpe al regime di Putin.

Gli europei soffrono la stessa sindrome di dipendenza dagli USA, acuitasi ancor di più a seguito dell’invasione russa in Ucraina, per via delle necessarie misure prese in ambito di politica energetica e per la rinnovata sfida alla propria sicurezza.

La NATO, criticata da entrambe le sponde dell’Atlantico durante la presidenza Trump, ha riacquisito una centralità “novecentesca” per la sicurezza dell’Europa, con nuovi allargamenti. Il prossimo vertice di Vilnius potrebbe discutere di un percorso per l’ingresso futuro dell’Ucraina stessa all’alleanza atlantica, superando un tabù.

Gli Stati UE rimarranno dipendenti dagli USA finché non doteranno l’Unione di una credibile e autonoma politica estera e di difesa. È illusorio sperare che gli americani continuino a mettere in secondo piano i loro interessi geopolitici nell’area del Pacifico in favore di un rinnovato impegno per la sicurezza europea. Ancor più pericoloso pensarlo oggi, considerando lo scenario globale in cui viviamo.

La divisione del mondo in blocchi contrapposti non riporterà alla vecchia Guerra Fredda, in cui l’UE poteva illudersi di prosperare sotto l’ombrello americano, ma si profilano scenari ben peggiori, di cui l’invasione russa in Ucraina rischia di essere solo un preludio. Il rischio di un conflitto tra l’Occidente democratico e i regimi autoritari; un’eventuale disgregazione incontrollata della Federazione Russa; l’incubo della minaccia nucleare per il mondo (dagli scontri attorno alla centrale di Zaporizhzhia alla gestione futura dell’arsenale nucleare russo) con l’abbandono dei trattati internazionali sul disarmo nucleare.

Questa è la vera posta in gioco per cui è necessario si completi al più presto il processo di unificazione europea. Non serve un’UE, o un suo nucleo, pienamente sovrana solo per aggiungersi come nuova potenza alla pari di USA e Cina. Serve invece completare il processo di unificazione europea, come compimento dell’unione pacifica di un continente, da sempre in guerra, nella condivisione di principi e valori democratici. Questo è l’esempio di successo che gli europei federati offrirebbero ad altri processi d’integrazione regionali in corso ed alla costruzione di una democrazia sovranazionale al livello globale che unisca realmente la comunità mondiale.

 

  

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