Sebbene il suo partito abbia perso alcuni punti in termini di consenso, a vantaggio del Partito Repubblicano, che ha guadagnato ancora più terreno in città importanti, Erdoğan sembra intenzionato a dare un nuovo corso alla politica estera del paese, che ad oggi si presenta fortemente diviso, polarizzato e attraversato da una difficile crisi economica.

Con il ballottaggio del 28 maggio scorso, Recep Tayyip Erdoğan ha riconfermato la sua leadership in Turchia, conservando per sé il ruolo di Presidente. Sebbene il suo partito, l’AKP (il Partito di Giustizia e Sviluppo) abbia perso alcuni punti in termini di consenso, a vantaggio del principale partito sfidante, il Partito Repubblicano, che ha guadagnato ancora più terreno in città importanti (come Istanbul e Ankara), Erdoğan, con la sua nuova formazione di governo, sembra intenzionato a dare un nuovo corso alla politica estera del paese, che ad oggi si presenta fortemente diviso, polarizzato e attraversato da una difficile crisi economica. 

Introduzione: come la Turchia ha affrontato le elezioni del 2023 

Quattro anni dopo le ultime elezioni amministrative, devastata dal terremoto del 6 febbraio e nel mezzo di una crisi economica: così la Turchia si è presentata all’appuntamento delle elezioni generali del 14 maggio (poi concluse con il ballottaggio due settimane dopo, il 28 maggio). I cittadini turchi hanno così rinnovato i 600 seggi parlamentari della Grande Assemblea Nazionale e dato nuovamente fiducia al Presidente uscente, Recep Tayyip Erdoğan (leader dell’AKP e della coalizione dell’Alleanza Popolare), al governo dal 2002.

All’alba delle elezioni, l’immagine della Turchia era quella di un paese socialmente e politicamente frammentato e polarizzato: le fratture sociali interne (laico-religiosa, turco-curda e sunnita-alevita, in particolare) hanno tenuto banco in tutto il periodo pre-elettorale e hanno inciso molto sul dibattito e sull’espressione di voto. Per i 64 milioni di cittadini turchi, di cui 3,4 milioni residenti all'estero e 5 milioni di primi elettori, la maggior parte dei quali è nata e cresciuta nell’era dell'AKP, le elezioni hanno inoltre rappresentato un passo importante, in un momento di forte crisi economica per il paese (negli scorsi mesi, infatti, l’inflazione è arrivata a sfiorare, e superare in base ad alcuni dati, la soglia del 100%) e a pochi mesi dall’evento sismico verificatosi nel sud del paese, che ha causato la morte di oltre 50.000 persone e 5,9 milioni di sfollati.

A presentarsi come candidati per le presidenziali sono stati in quattro: l’uscente Recep Tayyip Erdoğan; il candidato del Partito Repubblicano, Kemal Kılıçdaroğlu, alla guida dell’Alleanza della Nazione, composta da sei partiti di diversa estrazione politica e appoggiata anche dal nuovo partito filocurdo (il Partito di Sinistra Verde); Muharrem İnce (Partito della Patria), poi ritiratosi dalla competizione elettorale; Sinan Oğan (Partito del Movimento Nazionalista), risultato ago della bilancia per il secondo turno del 28 maggio e alleatosi per quell’occasione con Erdoğan. Se nei sondaggi alla vigilia del 14 maggio, Kılıçdaroğlu era dato in testa per la presidenza, l’AKP sembrava comunque conservare la maggioranza nel consenso per l’Assemblea, a riprova del fatto che, per le storiche elezioni turche del maggio 2023, un cambio di leadership era considerato possibile e che la popolazione del paese era fortemente divisa tra chi cercava un cambiamento e chi, con la rinnovata fiducia per Erdoğan, crede nella stabilità del paese a guida AKP. 

Le elezioni del maggio 2023 in Turchia: cosa ci raccontano del Paese 

Dopo una campagna elettorale difficile, caratterizzata da alcuni incidenti alle sedi di partiti e da denunce di brogli elettorali al primo turno del 14 maggio, il 28 maggio gli elettori turchi hanno decretato la vittoria del presidente uscente Erdoğan, riconfermatosi con il 52,2% dei voti, contro lo sfidante Kılıçdaroğlu, fermatosi invece al 47,8%. Non un grande divario, se si considera inoltre che per la Grande Assemblea Nazionale l’AKP di Erdoğan si è attestato al 35,6% (nel 2018 era al 42,6%), mentre il CHP è passato dal 22% del 2018 al 25%.

La fotografia della geografia politica turca ad oggi vede quindi una Turchia divisa quasi a metà, uscita anche dal secondo turno per le votazioni presidenziali con un’affluenza alle urne di quasi il 90% (seppur leggermente più bassa di quella al primo turno): Erdoğan ha mantenuto il controllo delle zone più interne della Turchia (Anatolia, dunque, ma anche province come quella di Gaziantep e di Şanlıurfa, nel sud est, fortemente colpite dal terremoto del 6 febbraio 2023); Kılıçdaroğlu, invece, facendo anche un paragone con i risultati elettorali del Partito Repubblicano alle ultime presidenziali del giugno 2018, conquista Istanbul (dove il sindaco Ekrem İmamoğlu si è candidato per il CHP), Ankara (dove è candidato, sempre tra le fila del CHP, il sindaco Mansur Yavaş), ma anche il distretto di Eskişehir, geograficamente vicino ad Ankara, quello di Antalya, Mersin e Adana, conservando inoltre la maggioranza nelle storiche roccaforti dell’ovest.

La coalizione di Erdoğan è composta dall'AKP e dal partito ultranazionalista Movimento Nazionalista (Milliyetçi Hareket Partisi, MHP), affiancati da tre piccoli partiti, due dei quali di orientamento islamista. L'AKP è saldamente radicato nell'ambiente conservatore e religioso, mentre l'MHP (fortemente impegnato nel nazionalismo e nello statalismo turco) fa leva sulle questioni etniche. Per provare ad accorciare ancora di più il divario in termini di risultati elettorali e vincere il secondo turno, Kılıçdaroğlu dopo il 14 maggio ha abbandonato i toni conciliatori che invece aveva dimostrato durante la campagna elettorale del primo turno e che gli avevano fatto conquistare il soprannome di “Gandhi turco”, nonché leader dell’”amore radicale”. Ha dunque sposato toni più duri, nazionalisti e anti-migranti, promettendo in particolare il rimpatrio dei profughi siriani. 

La vittoria di Erdogan e la nuova squadra di governo 

Dopo sei giorni dalla vittoria elettorale, il 4 giugno Erdoğan ha dunque giurato davanti alla nazione per il suo terzo mandato presidenziale, promettendo inoltre di “svolgere le sue funzioni in modo imparziale”. Nel suo discorso al parlamento, Erdoğan ha ribadito la sua determinazione a mettere in pratica il principio “pace in patria, pace nel mondo”, così come voluto dal padre della Turchia moderna, Mustafa Kemal Atatürk.

È interessante notare ad oggi, anche per la lettura delle prossime mosse della Turchia e per la sua proiezione in politica estera, la composizione della nuova squadra di governo. Molti i nomi “scomparsi” dal gabinetto turco, mentre si riconferma Mehmet Nuri Ersoy (alla Cultura). Tra i nomi altisonanti del nuovo governo (composto da 17 ministri) spicca Hakan Fidan, ex capo del Mit, il servizio di intelligence turco, dal 2010, che sostituisce agli Affari Esteri Mevlüt Çavuşoğlu. Fidan ha già ricoperto la figura di consigliere diplomatico del presidente ed è un abile negoziatore e conoscitore del mondo arabo. Altro tassello importante è quello della Difesa, dove arriva Yaşar Güler, capo dello Stato maggiore delle forze armate. Succederà a Hulusi Akar, considerato l'artefice della resistenza al fallito putsch di luglio 2016. All’Economia va Mehmet Şimşek, ex economista della banca americana Merrill Lynch e già ministro delle Finanze dal 2009 al 2015. Şimşek avrà il compito di riconquistare la fiducia degli investitori (soprattutto stranieri) e di ridare un'impronta più ortodossa alla politica finanziaria della Turchia. 

Conclusioni: verso un “nuovo secolo turco”? 

C’è dunque molta attenzione per i prossimi passi del Presidente Erdoğan, sul versante interno (in particolare a fronte di una lira turca che continua a essere sempre più debole rispetto a dollaro ed euro e per via dei più recenti arresti di circa 40 attivisti del movimento LGBTIQ+) così come su quello della politica estera: come già visto negli ultimi due decenni con il governo di Ankara, il progetto di Erdoğan è quello di inaugurare il “nuovo secolo turco”, di rendere dunque la Turchia sempre più centrale sull’orizzonte regionale (e dunque attraverso una normalizzazione con i vicini Egitto, Libia e Siria in primis), in grado di risolvere i problemi pendenti con l'Unione europea (in particolare per le questioni dei visti e dell’Unione Doganale) e di figurare come attore negoziatore per il conflitto in Ucraina.

Un importante dossier è infine rappresentato dal veto turco per l’ingresso della Svezia all’interno dell’Alleanza Atlantica: il vertice di Vilnius dell’11 e 12 luglio rappresenta certamente un momento cruciale per i negoziati con Stoccolma, ma i vecchi attriti con gli Stati Uniti, incrinati dopo l’affaire degli S400, sarebbero il vero ago della bilancia.

 

  

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