Quando, nel luglio dello scorso anno, la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen si è recata a Baku per trattare di energia, tutti avevano ben altro a cui pensare. Il caldo torrido, la guerra in Ucraina, e le dimissioni del governo Draghi riempivano le tv, le radio, e le piattaforme italiane. Eppure in quella giornata di luglio l’Unione europea e il governo azero si sono accordati per aumentare, entro il 2027, le forniture di metano verso il vecchio continente di ben 8 miliardi di metri cubi. D’altra parte, l’aggressione russa e le conseguenti sanzioni hanno privato l’Europa del suo maggior partner energetico; e la necessità di diversificare le proprie entrate di gas e petrolio è risultata ancor più evidente.

I nuovi accordi quindi, si sono tenuti sotto l’auspicio di una migliore “sicurezza energetica” per i paesi europei, trovatisi a contrattare nuovamente con l’autocrate azero Ilham Alyiev. Da circa vent’anni infatti, l’Unione europea fa affari con l’Azerbaigian, con contratti in cui si impegna a comprare combustibili fossili e a sostenere politicamente lo stato caucasico. D’altra parte, l’Azerbaigian importa dall’Unione europea una vasta quantità di prodotti, e si impegna a promuovere lo sviluppo democratico nel paese e a integrarsi nei meccanismi europei. Tuttavia, molti critici fanno notare come questi contratti non stiano giovando né agli stati europei, dove si riaprono centrali a carbone, né alla democrazia in Azerbaigian, dove la morsa dello stato si fa sempre più stretta. Che sia questa l’unica strada percorribile per garantire la sicurezza energetica in Europa e la democrazia in Azerbaigian?

Il cocktail europeo

Nel gestire i suoi accordi con gli stati esteri, l’Unione europea ha sempre insistito sul sottoscrivere contratti che non andassero a toccare solo l’ambito commerciale, ma anche quello sociale. Infatti, storicamente parlando, quando l’Unione si è trovata a commerciare con paesi autocratici, ha inserito nelle trattative clausole che mirano allo sviluppo della democrazia, alla tutela dei diritti umani, e al rispetto delle norme internazionali. Questo approccio non è dettato solamente dai virtuosi ideali dei leader europei, ma da necessità pratiche. Infatti, diversi studi riportano come avere a che fare con stati democratici e liberali diminuisca le possibilità di conflitto, aumenti la sicurezza regionale, e rafforzi i legami tra due paesi aventi la stessa forma di governo. Perciò, clausole di questo tipo sono considerate fondamentali per le pratiche di sicurezza europee. 

Così è stato anche per l’Azerbaigian. Nel 2006 l’Unione europea firmava con lo stato centro-asiatico lo “EU-Azerbaigian action plan”, un contratto che aveva come obiettivo quello di andare oltre la cooperazione energetica, e di perseguire obiettivi comuni per la sicurezza regionale in Centro Asia. Tra le priorità stilate nel contratto troviamo la risoluzione pacifica del conflitto in Nagorno-Karabakh, lo svolgimento di elezioni conformi ai principi enunciati dall'OCSE (Organizzazione per la sicurezza e cooperazione in Europa), l’implementazione di norme anti-corruzione, e la diversificazione delle entrate del paese.

Con questo e accordi simili l’Unione europea ha sperato, almeno per un decennio, di rendere l’Azerbaigian un paese più democratico e più affidabile per accordi futuri. Ma presto i nodi sono venuti al pettine. Non solo il partito del Presidente, e de facto dittatore, Ilham Aliyev continua a vincere (racimolando nelle ultime elezioni un misero 86,02% di preferenze!); ma il suo potere si è consolidato ancora di più grazie ai proventi del gas e del petrolio. L’ Azerbaigian è un paese sempre più autoritario e sempre più lontano dai modelli europei che prometteva di perseguire; e forse l’Europa ne è complice.

Nel segno degli Aliyev

Dopo la caduta dell’Unione sovietica, la neonata repubblica dell'Azerbaigian si trovò subito coinvolta in una guerra etnico-territoriale con gli Armeni per il controllo della regione del Nagorno-Karabakh. In seguito allo scoppio di questa guerra, il fragile governo presieduto da Abulfaz Elcibay fu costretto a dimettersi, ed al potere salì Heydar Alyiev. Con Alyiev l’Azerbaigian iniziò un processo di burocratizzazione guidato dall’export del petrolio e del gas del Mar Caspio. La classe politica dominante, fedele alla famiglia Alyiev, iniziò a controllare le maggiori industrie del paese, trasformando l’Azerbaigian in una repubblica oligarchica.

Il primo, grande, accordo tra l’Europa e l’Azerbaigian si ebbe nel 1994, quando la compagnia statale Azera SOCAR assicurò la vendita di gas e petrolio ad un consorzio che comprendeva compagnie energetiche provenienti da diversi paesi, tra cui le britanniche (e una volta europee) BP e Remco. Da quel contratto, passato alla storia come The Contract of the Century, l’Azerbaigian ha legato le sue fortune economiche all’export di energia.

Poco prima della sua morte, ad Heydar succede il figlio, Ilham Alyiev, con uno schiacciante 76,84% alle presidenziali del 2003. Ilham inizialmente sembrava volersi avvicinare all’Unione europea e alle sue istituzioni, ma le continue pressioni su democrazia e diritti umani da parte degli europei fecero presto cambiare idea al Presidente. Alyiev è sempre più convinto che gli europei continueranno a comprare il gas azero nonostante le prediche su democrazia e diritti umani, e che quindi quest’ultime non hanno ragione di essere ascoltate.

La sua strategia sembrava essere vincente. L’Azerbaigian si apre sempre di più alla Turchia e alla Russia, i proventi del gas entrano ininterrottamente, e l’autorità del regime cresce giorno per giorno.

Il concetto europeo di sicurezza energetica

Negli ultimi anni, in Europa si parla sempre più assiduamente di sicurezza energetica. La guerra in Ucraina è l’ennesima crisi di un settore strategico in difficoltà.

Secondo gli analisti europei, per sicurezza energetica si intende la disponibilità di rifornimenti energetici affidabili e a prezzi ragionevoli nel lungo periodo. In questo campo, i paesi membri dell’Unione europea hanno sempre avuto difficoltà, questo per ragioni geografiche (l’assenza di significativi campi di petrolio e gas in UE), per ragioni strutturali (l’assenza di un piano comune energetico efficace), e per differenti risorse tra nazioni (la Francia ha le centrali nucleari, la Germania grandi miniere di carbone…).

Ma è soprattutto la dipendenza da paesi esteri, spesso poco democratici, a mettere in pericolo la sicurezza europea. In mancanza di fonti energetiche proprie, l’Unione europea ha sottoscritto accordi con paesi come Russia, Azerbaigian, Algeria, e gli stati del Golfo. E anche se questi contratti sono stati siglati per proteggere gli interessi dei cittadini europei e per coinvolgere nei processi democratici i paesi limitrofi, potrebbero rivelarsi un’arma a doppio taglio.

Da un lato infatti, ci rende sempre più assoggettati a paesi dittatoriali; e dall’altro ci rende sempre più impotenti nell’avanzare richieste di democrazia. Questo circolo vizioso, per cui dipendendo sempre di più da questi paesi, riusciamo sempre meno ad influenzarli, deve essere spezzato.

Ripensare la sicurezza energetica in Europa

Di fronte a questa realtà, urge ripensare all’idea di sicurezza energetica in Europa. Per fare ciò, bisogna collegare la necessità di energia al collasso climatico mondiale. In tempi in cui la dipendenza da gas e da petrolio alimenta costantemente il degrado ecologico, che a sua volta produce altri problemi di sicurezza, bisogna pensare ad una politica energetica priva di combustibili fossili.

Per rimediare ai suoi problemi di sicurezza energetica, l’Unione europea deve concentrare le proprie forze nel produrre, sul suolo europeo, un’energia maggiormente eco-sostenibile. Per far ciò deve investire con più decisione, e a livello comunitario, in diverse forme di energia: dal nucleare all’eolico, dall’idroelettrico al solare. Così facendo non solo dimostrerebbe di essere pronta a rinunciare almeno in parte ai combustibili fossili, ma ne gioverebbe anche in campo commerciale. Infatti non sarebbe più costretta a cedere alle pretese di paesi autocratici come l’Azerbaigian, ma anzi, avrebbe una maggiore leva commerciale nelle trattative.

Non va dimenticato infatti che più del 50% dell’export azero è indirizzato verso l’Europa, e che il 16% della merce importata in Azerbaigian proviene dall’Unione europea. Così facendo l’Europa non solo risolverebbe buona parte dei problemi legati alla sicurezza energetica, ma farebbe anche enormi passi avanti in questioni di sicurezza territoriale. Infatti il contrarsi dei proventi dai combustibili fossili potrebbe rivelarsi un duro colpo per la presidenza azera. La necessità di conformarsi alle richieste democratiche di un'Europa libera da gas e petrolio, seguite da una perdita di legittimità politica data dal taglio delle vendite di combustibili fossili, e dalla necessità di diversificare la propria economia, gioverebbero al processo di democratizzazione dell’Azerbaigian.

In questo modo l’Unione europea non solo risolverebbe gran parte dei suoi problemi energetici, ma velocizzerebbe il processo di integrazione europea tramite una politica energetica comune. Rifiutando di cedere ai ricatti di stati autocratici, e rinunciando gradualmente ai fossili, l’Unione europea avrebbe la possibilità di dimostrare al mondo che democrazia e giustizia climatica passano attraverso le stesse lotte.

 

  

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