Migliorare il processo decisionale dell'UE non è sufficiente se i programmi europei, una volta approvati, sono messi in discussione dai Governi europei. Il caso del Green Deal europeo per la lotta ai cambiamenti climatici e la modernizzazione dell'economia.

Secondo una ricerca del New York Times, quasi metà della popolazione mondiale vivrà in aree in cui il livello di temperatura sarà dannoso per le persone per almeno un mese all’anno. Non sarà interessata soltanto una larga fascia intorno all’equatore, ma anche a Roma sarà pericoloso vivere o lavorare all’esterno, non solo per chi ha problemi di salute, per almeno un giorno all’anno.

Incendi colossali hanno colpito l’anno scorso la Siberia mentre quest’anno il fumo di quelli delle foreste del Canada ha avvolto New York e si è spinto fino alla Norvegia e al Regno Unito. Alluvioni disastrose hanno colpito negli ultimi mesi il Pakistan (più di mille vittime), la Nigeria (600 morti e 1 milione di sfollati), il Venezuela, le Filippine, l’Australia, il Brasile, la Malesia, il Perù, la Turchia, la California, Haiti e anche l’Italia, come ben sappiamo. Gli effetti del riscaldamento globale non sono più solo un rischio da collocare nel futuro, ma hanno iniziato ad avere un impatto concreto sulla vita delle persone, un po’ dappertutto nel mondo.

I governi si trovano così costretti ad agire rischiando di provocare la reazione dei settori economici e dei cittadini che si sentono danneggiati dai loro provvedimenti. D’altronde chi si oppone è costretto ad ammettere che anche l’inazione sta iniziando ad avere dei costi che non possono essere ignorati.

La lotta ai cambiamenti climatici richiede azioni che vanno ad interessare soprattutto le attività economiche, è per questo che la Commissione europea, che ha per compito quello di garantire il funzionamento del Mercato Unico, è stata investita del compito di definire le linee strategiche per l’azione degli Stati europei. Nel dicembre 2019 ha quindi presentato il Green Deal europeo, un piano ambizioso che pone l’obiettivo di trasformare l’economia europea per renderla efficiente e competitiva e consentire ai Paesi europei di mantenere una posizione di leadership a livello mondiale. Per finanziare il piano è stato deciso di vincolare ai suoi obiettivi un terzo dei 1800 miliardi di euro di investimenti del Next Generation EU - il piano per la ripresa dal Covid - e del bilancio settennale dell’UE, oltre ai fondi europei per la ricerca (Orizzonte Europa) e per gli investimenti (InvestEU).

Date le capacità quasi irrisorie di Orizzonte Europa e InvestEU, è chiaro che le possibilità di successo del Green Deal europeo dipendono dalla buona volontà degli Stati nel realizzare i progetti del Next Generation EU e del bilancio settennale. Non è quindi di buon auspicio quello che sta succedendo in Italia e in altri paesi, con i ritardi nella realizzazione dei progetti e i ripensamenti su quelli già approvati.

Il Green Deal è stato approvato abbastanza rapidamente dal Consiglio e dal Parlamento europei, ma è sulle direttive e sui piani dettagliati che, come c’era da aspettarsi, sono nati i problemi e sono iniziate le critiche.

Prima di tutto, gli sconvolgimenti che hanno fatto seguito all’aggressione della Russia all’Ucraina rischiano di mettere in dubbio, se non gli obiettivi, almeno le tempistiche del programma. Il rischio è che nella gerarchia delle priorità dei governi, la sicurezza energetica, gli investimenti in campo militare, le difficoltà economiche delle imprese e delle famiglie passino davanti alla lotta ai cambiamenti climatici. Questo sta facendo sì che la lotta ai cambiamenti climatici rischi di fare passi indietro in Europa e nel mondo.

L’interruzione delle forniture di gas e petrolio russi all’Europa con la ricerca da parte dei governi europei di nuove fonti di approvvigionamento ha consentito alle compagnie petrolifere di aumentare la loro influenza sui governi e sulle opinioni pubbliche, oltre che i loro profitti. Queste compagnie hanno così potuto ritornare a investire fortemente nella ricerca di nuovi giacimenti, in ragione dei maggiori rendimenti che la produzione di petrolio garantisce rispetto alle rinnovabili (il 15-20% rispetto a meno del 10%). Secondo l’Agenzia Internazionale per l'Energia queste attività stanno aumentando di più del 10% e raggiungeranno nel 2023 il livello più alto dal 2015.

Alle ripercussioni della guerra in Ucraina si aggiungono la crisi della globalizzazione e quella dei rapporti dell’Occidente con la Cina.

Le aziende cinesi dominano anche la produzione delle batterie, di alcuni minerali necessari per produrle e della loro raffinazione. La decisione del governo cinese di applicare restrizioni alle esportazioni di gallio e germanio – due minerali critici per le batterie e i semiconduttori - rischia quindi di dare un duro colpo al programma europeo di de-carbonizzazione e modernizzazione dell’economia. Il provvedimento cinese costituisce un nuovo passo nell’inasprimento dei rapporti europei con la Cina, poche settimane dopo la pubblicazione da parte della Commissione della Strategia per la Sicurezza Economica Europea che “mira a ridurre al minimo i rischi derivanti da alcuni flussi economici nel contesto delle accresciute tensioni geopolitiche e dei rapidi cambiamenti tecnologici”.

Spesso la Commissione viene accusata di seguire un approccio alle questioni climatiche che tiene poco conto delle diverse realtà economiche sia delle imprese che dei cittadini, rischiando di provocarne l’opposizione e di favorire le posizioni euroscettiche.

Le sfide del mercato dei veicoli elettrici sono particolarmente significative dei rischi che l’Europa e il suo Green Deal corrono a causa della dipendenza dall’estero della sua economia. Grazie al crollo del costo delle batterie si prevede che al massimo entro il 2017 produrre auto elettriche diventi meno costoso di quelle a combustibile, ci si aspetta quindi che la domanda mondiale di questi veicoli salga rapidamente (più del 50% quest’anno) e che la concorrenza internazionale si intensifichi. Attualmente l’Europa è il secondo mercato mondiale dopo la Cina, dove la tedesca Volkswagen è l’unico produttore europeo che può tener testa alla cinese BYD e a Tesla. La direttiva sullo stop alla produzione di auto a combustibile dopo il 2035, uno dei principali provvedimenti del Green Deal, ha quindi trovato forti resistenze al momento della sua approvazione da parte del Consiglio ed è passata solo dopo che il governo tedesco ha ottenuto la garanzia che fossero escluse le auto a carburante ecologico.

E’ il caso anche degli interventi contro l’inquinamento e la produzione di gas-serra in campo agro-alimentare – uno dei settori col maggiore impatto sui cambiamenti climatici - contenuti nella strategia Farm-to-Fork, il programma della Commissione per “guidare la transizione verso un sistema alimentare equo, sano e rispettoso dell’ambiente”, oppure quello dei provvedimenti per il risparmio energetico negli edifici, giudicati troppo onerosi per i cittadini, soprattutto per chi vive nelle regioni meno ricche.

Una critica di metodo analoga riguarda il fatto che la Commissione privilegia le prescrizioni, in molti casi molto specifiche, mentre sarebbe più efficace l’approccio seguito con successo dal governo americano con il Chip Act che si basa, al contrario, su incentivi e penalizzazioni, e dal governo cinese, che segue un approccio simile.

Chi critica il Green Deal europeo dimentica però il particolare contesto in cui la Commissione e il Consiglio si trovano ad operare, cioè che le decisioni sui programmi presentati dalla Commissione vengono prese dai governi dopo lunghe trattative in cui, da una parte, si cerca di conciliare gli interessi particolari di tutti gli Stati, dall’altra, si stabiliscono regole precise nel tentativo di vincolarli al loro rispetto, nella consapevolezza che sarà difficile, successivamente, fare in modo che un governo contrario a un provvedimento lo porti avanti.

Per uscire da questa situazione che ostacola la piena capacità di azione dell’Unione europea, può essere utile migliorare il processo decisionale del Consiglio estendendo il voto a maggioranza, ma non basta. E’ altrettanto necessario che il Consiglio sia costretto a confrontarsi con un Parlamento europeo che, oltre a rappresentare i cittadini europei in quanto tali, abbia anche il potere di decidere alla pari con il Consiglio. Occorre anche che la Commissione possa disporre delle risorse e delle strutture necessarie per portare avanti autonomamente i programmi senza essere costretta ad appoggiarsi sugli Stati per la loro realizzazione.

 

  

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