Una mobilitazione impressionante, anche popolare, da uno schieramento e dall’altro, ha cercato di fermare o, viceversa, accelerare il treno dell’approvazione della nuova Direttiva Copyright dell’Unione Europea. Senza totale vittoria, da entrambe le parti, ma comunque ottenendo emendamenti che l’hanno resa meno “netta e forte”, più proporzionata e ragionevole di com’era stata inizialmente proposta.

La Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sul diritto d'autore nel mercato unico digitale (proposta dalla Commissione nel 2016, COM/2016/0593 final) stabilisce norme volte ad armonizzare ulteriormente il quadro giuridico dell’Unione applicabile al diritto d’autore e ai diritti connessi nell’ambito del mercato interno, tenendo conto in particolare degli utilizzi digitali e transfrontalieri dei contenuti protetti.

Particolare novità concerne la responsabilizzazione in materia di proprietà intellettuale (altrui) dei “prestatori di servizi di condivisione di contenuti online“: sono tali, per esempio, i motori di ricerca o di indicizzazione delle notizie e i social network. I prestatori di servizi quali le enciclopedie online senza scopo di lucro, i repertori didattici o scientifici senza scopo di lucro, le piattaforme di sviluppo e di condivisione di software open source, i fornitori di servizi di comunicazione elettronica ai sensi della Direttiva (UE) 2018/1972, i mercati online, i servizi cloud da impresa a impresa e i servizi cloud che consentono agli utenti di caricare contenuti per uso personale non sono prestatori di servizi di condivisione di contenuti online ai sensi della testé approvata Direttiva, e quindi non risentono delle pesanti ripercussioni applicative della “link tax” e del filtro di contenuti illeciti caricati dagli utenti.

I due articoli più contestati, avversati o sostenuti, sono il 15 e il 17. L’articolo 15 prevede che debbano essere riconosciuti agli editori i diritti per l’utilizzo online delle loro pubblicazioni di carattere giornalistico da parte di prestatori di servizi della società dell’informazione. Questi diritti (che consisteranno nella remunerazione economica dell’utilizzo) potrebbero riguardare anche citazioni parziali delle loro pubblicazioni, sebbene la Direttiva specifichi che la protezione in questione non si applica ai collegamenti ipertestuali né all’utilizzo di singole parole o di estratti molto brevi di pubblicazioni di carattere giornalistico. Sarà da capire come ciascuno Stato vorrà interpretare questa previsione: i brevi “snippet”, cioè i titoli di notizie con incipit di una riga, e link alla fonte, tipicamente pubblicati e indicizzati da motori on line rientreranno in questo vincolo? Se così fosse, ad esempio, Google News difficilmente potrebbe reggere o continuare a pubblicare notizie di editori con i quali non raggiungesse un accordo commerciale di utilizzazione delle pubblicazioni. Questo sistema di remunerazione dei diritti non si applicherà agli utilizzi privati o non commerciali delle pubblicazioni di carattere giornalistico da parte di singoli utilizzatori.

Estremamente rilevante anche l’art. 17, che – pur specificando di non introdurre un obbligo generale di sorveglianza preventiva in capo ai prestatori di servizi di condivisione di contenuti online – li responsabilizza quasi oggettivamente (escludendo l’esonero da responsabilità per gli hosting provider ex art. 14.1 Dir. 2000/31/CE) per atti, non autorizzati dagli editori, di comunicazione al pubblico, compresa la messa a disposizione del pubblico, di opere e altri materiali protetti dal diritto d’autore, a meno che non dimostrino di: a) aver compiuto i massimi sforzi per ottenere un’autorizzazione, e b) aver compiuto, secondo elevati standard di diligenza professionale di settore, i massimi sforzi per assicurare che non siano disponibili opere e altri materiali specifici per i quali abbiano ricevuto le informazioni pertinenti e necessarie dai titolari dei diritti; e in ogni caso, c) aver agito tempestivamente, dopo aver ricevuto una segnalazione sufficientemente motivata dai titolari dei diritti, per disabilitare l’accesso o rimuovere dai loro siti web le opere o altri materiali oggetto di segnalazione e aver compiuto i massimi sforzi per impedirne il caricamento in futuro. Questa responsabilizzazione colpisce anche e soprattutto i contenuti caricati dagli utenti, sulle piattaforme di servizi di condivisione di contenuti online.

Per stabilire se il prestatore di servizi si è conformato agli obblighi e alla luce del principio di proporzionalità, sono presi in considerazione, tra gli altri, gli elementi seguenti: a) la tipologia, il pubblico e la dimensione del servizio e la tipologia di opere o altri materiali caricati dagli utenti del servizio; e b) la disponibilità di strumenti adeguati ed efficaci e il relativo costo per i prestatori di servizi.

Saranno parzialmente esenti da tale responsabilità, i nuovi prestatori di servizi di condivisione di contenuti online i cui servizi siano disponibili al pubblico nell’Unione da meno di tre anni e che hanno un fatturato annuo inferiore a 10 milioni di euro: tali prestatori potranno limitarsi alla dimostrazione di aver compiuto i massimi sforzi per ottenere un’autorizzazione e di aver agito tempestivamente, in seguito alla ricezione di una segnalazione sufficientemente motivata, per disabilitare l’accesso alle opere o ad altri materiali notificati o rimuovere dai loro siti web tali opere o altri materiali. Se il numero medio di visitatori unici mensili di tali prestatori di servizi supera i 5 milioni, calcolati sulla base del precedente anno civile, essi devono dimostrare altresì di aver compiuto i massimi sforzi per impedire l’ulteriore caricamento di opere o di altri materiali oggetto della segnalazione per i quali i titolari dei diritti abbiano fornito informazioni pertinenti e necessarie.

La cooperazione tra i prestatori di servizi di condivisione di contenuti online e i titolari dei diritti  non deve impedire la disponibilità delle opere o di altri materiali caricati dagli utenti, che non violino il diritto d’autore o i diritti connessi, anche nei casi in cui tali opere o altri materiali siano oggetto di un’eccezione o limitazione. Gli Stati membri dovranno prevedere norme nazionali affinché gli utenti in ogni Stato membro possano avvalersi delle seguenti eccezioni o limitazioni esistenti quando caricano e mettono a disposizione contenuti generati dagli utenti tramite i servizi di condivisione di contenuti online: a) citazione, critica, rassegna; b) utilizzi a scopo di caricatura, parodia o pastiche.

Le principali critiche sull’art. 17 si sono mosse in questi mesi per l’impossibilità, per i prestatori di servizi, di trovare autorizzazioni preventive da parte degli editori e di eseguire controlli capillari su tutti i miliardi di contenuti caricati e condivisi dagli utenti attraverso le proprie piattaforme. In sostanza, la conformità alle nuove previsioni non lascerebbe altra strada ai prestatori di servizi di condivisione on line, se non quella di filtrare con algoritmi automatizzati tutti i contenuti via via caricati dagli utenti. Questo, come ovvio, potrebbe comportare inevitabili effetti automatici di censura e di filtro della libertà di espressione e dei diritti all’informazione degli utenti del web.

Il Parlamento europeo, dopo alcuni mesi di negoziazione nel cosiddetto “trilogo” tra Commissione, Consiglio e lo stesso Parlamento, ha approvato il testo. Sono rimasti in piedi i due principali articoli oggetto di battaglia: quello relativo alla cosiddetta “link tax” e quello relativo al filtro dei contenuti caricati dagli utenti.

Agli osservatori più attenti non sarà sfuggito come il dibattito si sia concentrato anche sulla modalità di voto: tra chi ha sostenuto l’opportunità di votare per appello nominale e chi a scrutinio segreto. Se, da una parte, l’appello nominale avrebbe potuto chiamare ciascuno a maggiore responsabilità, dall'altra, avrebbe spinto ad allinearsi all'indicazione di voto del gruppo di appartenenza anche coloro che, pensandola diversamente, a scrutinio segreto si sarebbero sentiti più liberi di esprimersi coerentemente con le proprie idee. Almeno in teoria. Lo scorso 26 marzo 2019, il testo – votato per appello nominale, con 348 voti a favore, 274 contrari e 36 astenuti, 197 deputati “ribelli” rispetto alla posizione di voto indicata dal gruppo di appartenenza, e sei Stati (Italia, Svezia, Finlandia, Polonia, Olanda, Lussemburgo, e tre Stati astenuti, Slovenia, Estonia, Belgio) che si sono dichiarati contrari nel voto finale del Consiglio UE del 15 aprile 2019 – ha mostrato una linea di voto mobile che ha dato forma ad una maggioranza variabile e trasversale sia rispetto ai gruppi di appartenenza che, all’interno degli stessi gruppi, ai Paesi di provenienza.

Ora la partita si sposta nei singoli Stati membri della UE, che entro 2 anni dovranno recepire la Direttiva nelle legislazioni nazionali, avendo margini di manovra per declinarla in modo più o meno restrittivo.

Luca Bolognini (presidente Istituto Italiano per la Privacy) e Michele Gerace (presidente dell'Osservatorio sulle Strategie Europee per la Crescita e l'Occupazione).

 

  

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