Il 17 novembre al Vertice sociale tenutosi in Svezia, si è siglata una Joint Declaration sul pilastro sociale europeo ad opera dei tre Presidenti del Consiglio Europeo, del Parlamento e della stessa Commissione. La dichiarazione offre un lungo e articolato Preambolo riassuntivo e ricostruttivo di tutti gli avanzamenti compiuti dall’Unione in campo sociale e delle competenze che questa può vantare nel settore.

La Dichiarazione offre VENTI PRINCIPI (in certi casi anche diritti in senso stretto) che l’Unione e gli Stati dovrebbero raggiungere in campo sociale, articolati su tre assi tematici: ”eguaglianza di opportunità e di accesso al mercato del lavoro”, “eque condizioni di lavoro”, “protezione ed inclusione sociale”. Si tratta di un territorio già in gran parte presidiato dalla Carta dei diritti fondamentali, ma si nota uno sforzo nella formulazione di criteri di filosofia pubblica regolativa più ampi ed inclusivi rispetto alla codificazione della stessa Carta cui corrisponde, in alcuni casi, anche una definizione più esatta e precisa del diritto in gioco, come ad esempio per il reddito minimo garantito (RMG).
La Dichiarazione chiude una complessa operazione aperta dal Discorso sullo Stato dell’Unione del 2016 di J. C. Juncker, in cui si riapriva un dibattito sull’Europa sociale. Seguì una Comunicazione e una consultazione nel corso della quale il Parlamento adottò una Risoluzione molto netta e coraggiosa nel rivendicare protezioni più forti, secondo una logica di convergenza dei vari modelli nazionali verso un superamento delle politiche di austerity (cfr. nostro articolo sul nr. 1/2017). Successivamente il 27.4.2017 la Commissione adottò una Dichiarazione sull’European social pillar con i 20 principi pertinenti.
Il primo passo concreto, dal punto di vista legislativo, è stato l’avvio di una consultazione con le parti sociali per l’approvazione di una Direttiva di conciliazione tempo di vita e di lavoro, cui si aggiunge la notizia di un compromesso con il PE in ordine ad una revisione dell’importante direttiva sui distacchi dei lavoratori con una più decisa affermazione del criterio di uguaglianza di trattamento tra lavoratori distaccati e non.

Ora che il processo è concluso sembra possibile fare qualche sommaria considerazione. E’ piuttosto diffuso un certo scetticismo sulla Dichiarazione che, sebbene sia un Testo molto brillante nel sintetizzare ed accorpare attorno a 20 meta-principi le migliori esperienze europee lavoristiche e di protezione sociale, tuttavia non scioglierebbe il nodo di Gordio delle competenze in questo settore. Non viene infatti assegnato agli organi dell’Unione un ruolo definito in modo da colmare quelle fratture e quei divari tra le esperienze nazionali che la governance sovranazionale in questi anni non ha saputo fronteggiare. Per essere sintetici: 1) i “signori della solidarietà” restano ancora gli Stati-nazione, muovendosi la competenza dell’Unione a macchia di leopardo e con alcuni tabù davvero imbarazzanti come quello sulle retribuzioni o lo sciopero, pur dichiarando il Trattato di Lisbona (art. 4 TFUE) la social policy come una competenza “ condivisa”; 2) manca ancora una strategia definita di interventi legislativi europei su aspetti cruciali del welfare e dei rapporti lavorativi; 3) ci si affida alla buona volontà degli stati che, forse, verranno monitorati più strettamente riguardo l’effettività di alcune protezioni primarie ma non verranno costretti a “ diventare virtuosi” (un caso per tutti la plateale disobbedienza italiana in materia di RMG).

Certamente il punto da cui partire è comprendere come si siano rivelate infondate le speranze della seconda Convenzione (ribadite con il Trattato di Lisbona) in ordine all’evoluzione dell’Europa sociale incentrate su tre elementi. In primo luogo la convinzione che un restatement dei valori e degli obiettivi dell’Unione avrebbe determinato di per sé una maggiore determinazione nell’utilizzare al meglio quelle competenze che in sostanza erano già previste nel Trattato di Amsterdam, poi confermate a Nizza e a Lisbona. La seconda era che l’approvazione della Carta di Nizza e la sua applicazione in tutte le Corti sotto la guida della Corte di giustizia avrebbe determinato una spinta alla convergenza e fusione delle strade nazionali con una pressione giudiziaria dal basso verso soluzioni comuni legislative. La terza è che il “metodo aperto di coordinamento”, basato su confronto, conoscenza e selezione di best practises, avrebbe portato gli stati, anche nei settori ove mancava una competenza dell’Unione, ad una convergenza sotto la guida e la sorveglianza della Commissione.

Sebbene si trattasse in realtà di un progetto non banale e di una certa astuzia (anche costituzionale) la crisi economica (e dell’euro) dal 2008 in poi ha mandato in frantumi quei sogni precipitando gli stati indebitati nel rientro dai deficit o nelle operazione di salvataggio dai pericoli di default. Il che ha generato a sua volta una frattura sociale piuttosto radicale in campo sociale tra un Sud costretto ai sacrifici ed un Nord che invece ha potuto conservare i i tratti caratteristici dei propri welfare con prestazioni significative. La Carta di Nizza, sebbene agita nei Tribunali come limite per le politiche di austerity, non ha potuto fronteggiare queste dinamiche da un lato per la sua impostazione “tecnica” che ne prevede l’applicabilità solo rispetto al diritto dell’Unione ed al diritto nazionale attuativo del primo (art. 51), non, quindi, in via generale. E dall’altro lato perché per le operazioni di salvataggio ad opera del MES la Corte di Giustizia ha ritenuto non invocabile la Carta in quanto si tratta di un Trattato internazionale.

L’architettura imperfetta, che è alla base del sistema euro, non ha consentito di fronteggiare la crisi con azioni in positivo dell’Ue (solo con Juncker qualcosa si è fatto), mentre da parte federalista si era correttamente invocata una politica di investimenti comuni, ivi compresi gli aspetti di valorizzazione del capitale umano. Il “metodo aperto” è diventato lettera morta in quanto i paesi sono sembrati, soprattutto in campo sociale, abbandonati al loro destino. Mentre la risposta sul piano sociale sovranazionale è apparsa fiacca, se non inesistente, le regole della sorveglianza macro-economica si sono imposte univocamente generando diffuse critiche su un’Europa che sanziona e punisce, ma non è capace di agire in positivo, sviluppando quella coesione che è premessa ed al tempo stesso fine del processo di integrazione. La crisi economica ha dunque finito per mantenere la tutela sociale nell’ambito quasi esclusivo del potere nazionale.

E’ in questo scenario, che dovrebbe, finalmente, preludere alle necessarie riforme istituzionali con la “costituzionalizzazione “ delle regole costruite nel tempo attorno all’”euro” che va letta la Dichiarazione e ancor prima la Comunicazione della CE. Si afferma con una certa solennità che non vi può essere un rilancio del “progetto europeo” senza rimettere mano, con determinazione e chiarezza, al capitolo sociale dell’Unione in modo che ai cittadini europei siano offerte tutele idonee in ordine a diritti fondamentali di natura lavoristica e welfaristica. La Dichiarazione rende poi chiari e comprensibili tutti i principi di regolazione sociale che dovrebbero essere seguiti ed affronta inoltre la nuova sfida di come realizzare una protezione di base per coloro che operano attraverso la rete, ad es. nella cosidetta sharing economy, che difficilmente possono essere riconosciuti come dipendenti e alcune volte neppure come autonomi, soprattutto quando le prestazioni consistono in uno scambio circolare di servizi tra consumatori- utenti (i cosidetti prosumer). Sebbene la C.E. abbia su questo nuovo scenario tecnologico offerto studi di una certa originalità, ancora manca la progettazione di tutele a hoc che non snaturino le nuove caratteristiche del lavoro su Internet, ma che offrano qualche copertura “di base”, altrimenti potrebbero generarsi reazioni irrazionali di tipo luddistico. La Dichiarazione apre con decisione a questa prospettiva e sembra in questa direzione valorizzare quelle protezioni dei minimi lavoristici o di welfare che esistono nella maggioranza dei paesi Ue, il salario minimo legale ed il RMG (che la Dichiarazione vuole anche “adeguato”, cioè sufficiente per una vita libera e decorosa). Su queste misure il Testo è molto specifico, sicché descrive dei “ diritti” e non dei meri principi. Ora è ben vero che il Testo non esplicita mai se per realizzare quanto previsto si debbano riformare i Trattati (si rivolge prioritariamente ai paesi dell’eurozona) o meno, e nemmeno quale sia il ruolo dell’Unione e quale quello dei paesi membri. Ma sembra che si tratti di una scelta obbligata, posto che il previsto riordino della zona euro non è stato ancora dettagliato.
Alla Dichiarazione va il merito di avere riportato in agenda la questione sociale in Europa e di avere elaborato un solenne pro-memoria per coloro che si metteranno alla testa della riscossa federalista e che dovranno dare una risposta costituzionale e regolativa ai principi di questa. Insomma o l’Europa sarà anche sociale o non sarà: almeno questo importante messaggio la Dichiarazione lo trasmette con forza.

  

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