Poco dopo lo scoppio della bolla immobiliare e l’esplosione della crisi dei mutui sub-prime, il governo americano, dopo aver stanziato 700 miliardi per l’acquisto di titoli tossici e per rifinanziare direttamente le banche, nel gennaio 2009 approva l’American Recovery and Reinvestment Act, che prevede aiuti ai disoccupati e il finanziamento di progetti infrastrutturali, di sanità e istruzione, di misure di sicurezza interna e di nuovi programmi energetici, per 787 miliardi di dollari. La risposta alla crisi è immediata e consistente: rifinanziamento del sistema bancario e assicurativo, ma al contempo un New Deal per il rilancio dell’economia attraverso interventi di tipo keynesiano a sostegno della domanda.

La risposta in Europa è del tutto diversa. Anche se Spagna e Irlanda, i due Paesi in cui l’esplosione del disavanzo è più consistente, presentavano prima della crisi dei mutui sub-prime un bilancio in pareggio o addirittura in surplus, la diagnosi più diffusa all’interno dell’Unione è che la crisi sia determinata dai disavanzi pubblici eccessivi e dall’elevato stock di debito accumulato nei primi anni dell’Unione monetaria. E la risposta politica alla crisi prevede dunque di imporre agli Stati membri dell’Eurozona una politica di consolidamento fiscale, con riduzioni della spesa pubblica e aumenti delle imposte.

Il confronto fra quanto avvenuto in America e in Europa è istruttivo. Negli Stati Uniti c’è un governo federale, capace di prendere decisioni, che devono essere poi approvate dal Congresso in rappresentanza dell’insieme del popolo americano. In Europa una struttura federale di governo non c’è. Le decisioni politiche fondamentali sono prese all’unanimità nell’ambito del Consiglio Europeo, mentre gli atti legislativi richiedono l’approvazione congiunta del Consiglio (composto dai Ministri nazionali competenti per materia, ndr) e del Parlamento, attraverso un processo che, anche nel caso di un esito positivo, richiede comunque tempi lunghi. In ogni caso, tutte le decisioni di natura fiscale devono essere approvate all’unanimità dal Consiglio.

La risposta dell’Eurozona di fronte alla crisi è stata quindi lenta, debole e in direzione sbagliata, nell’ipotesi, rivelatasi infondata, che la sola politica nazionale di consolidamento fiscale rigenerasse automaticamente la crescita. Il compito di contrastare gli effetti della crisi è stato affidato totalmente alla politica monetaria, regolata dalla Banca Centrale europea, che è un organo di natura federale. E il contrasto fra la debolezza del Consiglio europeo e l’efficienza della Banca Centrale è emerso recentemente con grande evidenza, quando il Consiglio europeo si è riunito con frequenza quindicinale e non è riuscito a elaborare una politica efficace sul tema delle migrazioni e della sicurezza, mentre la Banca Centrale, nonostante il parere sfavorevole della Germania, è stata capace di decidere a maggioranza il rafforzamento del Quantitative Easing.

Le conseguenze dell’assenza di un potere a livello europeo si sono manifestate con evidenza già con il Trattato di Maastricht. Nel processo verso la moneta unica sono state fissate ex ante le regole da osservare, per garantire alla Germania che comportamenti devianti dei futuri paesi membri non danneggiassero gli altri Paesi dell’Unione monetaria. Ma l’unificazione monetaria tedesca si è fatta invece attraverso una shock therapy, senza precondizioni, in quanto Berlino era in grado di garantire comportamenti dei Länder dell’ex-DDR coerenti con l’obiettivo della stabilità finanziaria.

L’imposizione di regole dall’alto si è rafforzata anche dopo l’approvazione del Trattato di Lisbona. Un numero sempre maggiore di scelte per quanto riguarda la fiscalità sfugge al controllo dei governi nazionali ed è definito attraverso regole fissate da Bruxelles, così che il grado di accentramento nell’Eurozona è superiore a quello prevalente nei Paesi a struttura federale. Dopo i vincoli di Maastricht è venuto il saldo di bilancio close to balance or in surplus del Patto di Stabilità, seguito dal Six Pact, dal Two Pact e infine dal Fiscal Compact che, oltre ai vincoli crescenti sui saldi, hanno introdotto il c.d. Semestre europeo, in cui le scelte di politica di bilancio degli Stati membri sono sottoposte preventivamente al controllo degli organi europei. Se si vuole garantire al contempo l’efficienza e la democraticità delle decisioni in materia di politica fiscale occorre da un lato evitare di predeterminare la natura delle scelte come avviene con il Fiscal Compact e, d’altro lato, favorire una più incisiva partecipazione del Parlamento europeo nella gestione del Semestre.

Oggi l’Europa si trova ad affrontare disunita il tema delle migrazioni e del terrorismo, e la sua debolezza istituzionale si ripresenta in termini drammatici. Ci sono almeno due questioni che richiedono un passo avanti decisivo verso una struttura federale dell’Unione, in particolare nel quadro dell’eurozona: definire un bilancio dotato di risorse proprie e promuovere una capacità di decisione in materia di politica estera e della sicurezza. E in questa prospettiva l’Italia può giocare un ruolo importante. Renzi ha avviato un dialogo con Bruxelles sul tema della flessibilità nell’applicazione delle regole di bilancio. E’ una posizione che in linea di principio sarebbe corretta, se la flessibilità fosse reclamata per il bilancio a livello europeo; ha poco senso invece se riguarda il bilancio nazionale, mentre rischia per di più di alimentare la crisi di fiducia verso il nostro Paese da parte di Bruxelles che non vede ancora un’inversione di tendenza nella crescita del nostro debito pubblico. Se è vero che gli Stati membri dell’Eurozona devono rispettare le regole di bilancio, al contempo essi devono richiedere con forza che a livello europeo sia promosso un New Deal, di dimensioni paragonabili a quelle adottate dagli Stati Uniti.

Il documento del Ministro Padoan che propone una “Una strategia europea condivisa per crescita, lavoro e stabilità” introduce finalmente qualche elemento di chiarezza nella posizione italiana. E’ vero che è riaffermato ancora una volta il principio che ”lo spazio di bilancio dovrebbe essere pienamente usato per sostenere la crescita”, nell’ipotesi sottintesa che il sostegno alla crescita debba essere promosso principalmente a livello nazionale, ma vi sono anche importanti contributi per quanto riguarda sia la governance dell’Unione economica e monetaria, sia il mix ottimale di politiche da adottare. Di rilievo non è soltanto il sostegno alla creazione di un Ministro del Tesoro europeo, ribadito con forza in un’intervista al Figaro del 30 marzo, quanto il fatto che per definire le politiche da adottare occorra tener conto sia dei problemi della stagnazione economica e della disoccupazione, sia delle emergenze legate alle migrazioni di massa e della sicurezza, che potranno essere affrontate soltanto attraverso l’attribuzione di risorse significative al bilancio europeo.

In realtà, i due temi della politica di bilancio e della sicurezza sono oggi strettamente interrelati. E su questo punto il documento italiano rappresenta soltanto un punto di partenza, da sviluppare sia per quanto riguarda le risorse da attribuire al bilancio che dovrà gestire il Ministro del Tesoro europeo, sia del potere che deve essere riconosciuto a livello europeo per gestire una politica estera e di sicurezza efficace. Il problema ancora una volta è di natura politica e richiede che, di fronte a un problema – il coniugare lo sviluppo e la sicurezza esterna con le politiche nazionali di consolidamento fiscale – che gli Stati non sono in grado di affrontare e risolvere, si prenda un’iniziativa per il trasferimento di poteri adeguati di bilancio e di politica estera e della sicurezza a un governo europeo, in cui la Commissione eserciti il potere esecutivo, controllata con un voto a maggioranza dal Parlamento europeo e dal Consiglio, nell’ambito delle direttive politiche emanate dal Consiglio europeo.

  

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