Dal 24 novembre al 15 dicembre 1995 circa due milioni di persone scendono in piazza nelle città francesi. Nel mirino dei manifestanti c’è il Plan Juppé, elaborato dal governo nominato dal neo-Presidente della Repubblica gaullista Chirac. Si arriva da 14 anni di Presidenza Mitterrand. La proposta di legge definita dal nuovo governo prevede un aumento delle annualità minime di contribuzione per i dipendenti pubblici da 37,5 a 40 e una serie di misure tese a contenere la spesa nella Sécurité sociale, in anni in cui il debito pubblico aumenta e le tensioni finanziarie mettono a rischio lo SME. I sindacati non ci stanno, così le ferrovie di tutta la Francia e i trasporti pubblici di Parigi sono quasi bloccati. Si tratta delle più grandi mobilitazioni in Francia dalle storiche proteste del maggio ’68, tanto che Chirac alla fine viene a compromessi con le piazze: diversi tagli alla spesa sono sì approvati, ma non c’è nessuna modifica alle pensioni dei dipendenti pubblici e dei regimi speciali. L’esperienza, tuttavia, è una lezione per il Presidente della Repubblica: pochi mesi dopo l’Assemblée Nationale approva una modifica costituzionale sull’articolo 47.1, che consente al governo di accorciare i tempi del dibattito parlamentare nel caso di una legge che interviene sulla Sécurité sociale.

LA RIFORMA DI OGGI. Tale articolo non è mai stato applicato, nei vari tentativi, realizzati e abrogati, di riforme sociali e delle pensioni fino al gennaio di quest’anno, dopo che il governo Borne ha presentato al Parlamento la proposta di una nuova riforma delle pensioni. La misura faro della riforma è l’innalzamento dell’età pensionabile da 62 a 64 anni, oltre ad altri interventi tesi ad aumentare gli anni di contribuzione richiesti e a uniformare i trattamenti pensionistici fra le categorie di lavoratori, ma anche a fissare un tetto minimo alle pensioni a 1.200 euro al mese per chi rispetta gli anni minimi di contribuzione.

La contestazione alla riforma è montata non solo all’Assemblée Nationale, dove i numerosi emendamenti presentati dalle opposizioni hanno spinto per l’appunto il governo ad applicare l’articolo 47.1 della Costituzione, ma anche e soprattutto nelle piazze. I sindacati anche questa volta non ci stanno, al punto che si stima che la partecipazione alle manifestazioni abbia superato quelle dell’autunno 1995. Le violenze non stanno superando forse quelle del rissoso autunno 2018 caratterizzato dalle anarchie dei gilet gialli, ma Parigi è in stato di perenne agitazione, i rifiuti si accumulano davanti ai cassetti della spazzatura e la sera del 23 marzo quindici metri di fiamme si sono levati sulla facciata del municipio di Bordeaux, pochi giorni dopo l’approvazione della riforma da parte dell’Assemblée, con il governo che ha resistito per una manciata di voti a una mozione di censura presentata dalle opposizioni.

QUALI RIFLESSIONI svolgere come federalisti dinnanzi a questo scenario? Verrebbe da dire che non c’è nulla o poco di nuovo nel vedere scioperi e manifestazioni di massa promosse dalla combattiva CGT e dagli altri sindacati francesi su un tema così sentito socialmente come le pensioni. Ci pare tuttavia che due ordini di valutazioni vadano sottolineate.

  1. LA CRISI DELLA CLASSE PARTITICA NAZIONALE. Da un lato, è da prendere in considerazione lo stato di salute del sistema partitico francese. Se nel 1995 le proteste avvennero poco dopo una regolare alternanza fra socialisti e gaullisti alla Presidenza della Repubblica, nelle ultime due elezioni presidenziali né gaullisti né socialisti hanno portato un loro candidato al secondo turno. Il tonfo nel 2022 è accelerato ancora rispetto al 2017: sei anni fa Fillon e Hamon conquistarono in due il 26,37% dei voti, mentre l’anno scorso Pécresse e Hidalgo si sono fermate in due a un risibile 7,52%.

La domanda che ora incombe sulla politica francese è cosa avverrà alle presidenziali del 2027, quando Macron, avendo raggiunto il limite di due mandati, non si potrà più candidare. A sette anni di vita, La République en Marche (ora Renaissance) non sembra affatto pronta a emanciparsi dal padre leader attorno a cui il figlio partito è stato costruito. Il ritiro di Le Havre di Edouard Philippe può tenerlo al riparo da potenziali critiche a misure impopolari come la riforma delle pensioni, anche se la sapiente navigazione di Marine Le Pen, ribelle ma non più anti-UE e anti-euro, è una minaccia incombente e forte.

A ogni modo, sarà ancora una volta il contesto politico e istituzionale più complessivo a guidare le intenzioni di voto: quale UE ci sarà nel 2027? Dopo il discorso alla Sorbona del settembre 2017, i molti richiami a un’Europa sovrana e la proposta lanciata da Macron di una Conferenza sul Futuro dell’Europa del marzo 2019, nessuna riforma dell’UE ne seguirà? Se così avverrà, la rabbia delle piazze francesi potrebbe provocare un fracasso ancora più travolgente sulla crisi della già comatosa classe partitica nazionale. Ma se l’Europa farà un sussulto lo scenario potrebbe essere diverso.

  1. UN NUOVO RAPPORTO CON IL LAVORO. Infine, un secondo ordine di valutazioni sollevano le proteste contro le pensioni. Ci si potrebbe attendere che le manifestazioni di piazza accolgano solo e soltanto lavoratori prossimi alla fine della carriera, che i giovani francesi vedano di buon occhio una riforma delle pensioni che riduce la spesa pubblica futura, alleggerendo le tasse che saranno loro applicate nel corso della carriera lavorativa. Invece, il 9 marzo l’Union Nationale des Etudiants de France ha organizzato il 9 marzo una propria manifestazione a Parigi e il 18 marzo l’università di Limoges è stata occupata dagli studenti, per citare due esempi fra i più eclatanti.

Ma non si tratta solo di una questione di equità intergenerazionale che in questo dibattito si è posta e si sta ponendo poco. Stando sul caso francese, un’indagine pubblicata dall’IFOP nell’ottobre 2022 classifica solo al 29% la parte di francesi che vorrebbero guadagnare di più avendo meno tempo libero (nel 2008 erano al 62%) e coloro che ritengono il lavoro “molto importante” solo al 21% (nel 1990 erano il 60%). Un’altra recente indagine dell’IFOP condotta in Francia sui giovani fra i 18 e i 25 anni posiziona al 44% i giovani che sarebbero disposti a diminuire il proprio stipendio fra il 5 e il 15% pur di lavorare in un’azienda in linea con i propri valori.

Tali numeri si situano in un contesto di trend molto citati, quali il fenomeno delle Grandi dimissioni post covid (mezzo milioni di francesi che hanno lasciato il lavoro dallo scoppio della pandemia), il cosiddetto Quiet quitting (lavorare il meno possibile) e una generazione Z (i nati dal 1997 in poi) che diversi studi come quello sopra citato dell’IFOP mostrano come meno interessati al lavoro rispetto alle generazioni precedenti.

CONCLUSIONI. In questo scenario, dunque, lavorare due anni in più per i francesi è sembrato un’inversione di marcia ingiustificata. Ma i conti delle sgangherate casse pubbliche nazionali della Francia e di tutti i Paesi europei (Italia in prima fila) non potranno tornare se l’UE rimarrà quella intergovernativa di oggi. Così, senza una riforma dell’UE, le sollevazioni sociali di oggi per le esigenze insoddisfatte della cittadinanza potranno avere un domani effetti ben più gravi. In Francia ma non solo.

 

  

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