Le elezioni che si terranno quest’anno a giugno saranno il decimo voto europeo espresso dai cittadini dell’Unione europea. È un voto che racconta molto dell’essenza del processo di unificazione europea, dei suoi successi, dei nodi ancora irrisolti e soprattutto della sua natura di laboratorio in cui si sperimenta e si cerca di costruire il primo modello di democrazia sovranazionale.

L’elezione diretta a suffragio universale del Parlamento europeo è stata una grande conquista dei federalisti europei che hanno avuto un ruolo di avanguardia in questa battaglia politica: non solo con la lunga mobilitazione iniziata alla metà degli Anni Sessanta (che ha portato in Italia a far approvare una legge di iniziativa popolare nel 1967 che stabiliva che l’Italia avrebbe eletto unilateralmente a suffragio universale i propri rappresentanti); ma anche con il contributo in termini di visione e di analisi. L’elezione diretta del Parlamento europeo, nell’ottica dei federalisti, era il cambiamento che avrebbe innescato un processo costituente, portando l’Assemblea a rivendicare i poteri democratici che sono normalmente attribuiti nell’architettura statuale democratica agli organi parlamentari che rappresentano i cittadini, e quindi a innescare un’evoluzione istituzionale in senso sovranazionale e federale; e avrebbe anche costretto le forze politiche a mobilitarsi sul piano europeo per cercare di conquistare un potere in fieri, che loro stesse, all’interno del Parlamento, avrebbero contribuito a sviluppare come un vero potere statuale. Inoltre, sul piano valoriale e ideale, rappresentava il primo esempio di esercizio di democrazia sovranazionale, chiamando i cittadini di (allora) 9 Paesi integrati, ma sovrani, ad eleggere i propri rappresentanti in un’Assemblea parlamentare comune. In un processo in continua evoluzione come quello di unificazione europea, l’elezione diretta del Parlamento costituiva pertanto un momento di svolta che costringeva la Comunità europea – dopo il fallimento della CED e la ripartenza con i Trattati di Roma del 1957 – a riprendere un filo politico che era stato accantonato. 

L’elezione diretta del Parlamento europeo è stata infatti innanzitutto la dimostrazione che il vero motore dell’integrazione europea è sempre stato politico. La CECA è stata voluta con istituzioni sovranazionali che anticipavano un assetto federale (“prima tappa della Federazione europea”) e, anche se dopo la caduta della CED i governi hanno scelto di tralasciare l’obiettivo dell’unità politica e di lasciare nelle mani degli Stati membri le leve della sovranità e il rapporto diretto con i cittadini, non ci sarebbero state le condizioni per il progresso verso l’integrazione neppure nell’ambito del Mercato senza la spinta politica e ideale del progetto iniziale dei Padri fondatori. Il confronto con i poveri risultati raggiunti dall’EFTA rispetto alla CE dicono molto sul valore aggiunto del progetto europeo. È stato dunque il motore politico ad animare anche il processo di integrazione del Mercato comune e a renderlo ambizioso al punto che, nella sua evoluzione, la stessa costruzione del Mercato comune è arrivata a scontrarsi con la necessità di accrescere le competenze a livello europeo e di trovare forme di gestione politica – se non ancora di governo – comuni. In questo senso la scelta di chiamare i cittadini europei – ancora, all’epoca, semplici cittadini italiani, francesi, tedeschi, inglesi, ecc – ad eleggere i propri rappresentanti politici comuni sanciva da parte dei governi la presa d’atto della realtà più profonda del processo europeo e al tempo stesso creava lo strumento che ne aiutava l’evoluzione in direzione realmente sovranazionale.

La storia dei 45 anni di integrazione trascorsi dalla prima elezione del 1979 hanno poi confermato l’importanza di questa istituzione anche per contrastare la resistenza fortissima da parte degli Stati membri a condividere porzioni di sovranità politica; una resistenza che li ha portati a generare un sistema in cui anche il metodo intergovernativo si è paradossalmente rafforzato – proprio a fronte della necessità di aumentare le politiche comuni – e i meccanismi decisionali si sono concentrati nelle mani dei governi nazionali, complicandosi esponenzialmente. 

In questo quadro, reso ancora più complesso dall’allargamento e dai mutamenti avvenuti nel quadro internazionale, il Parlamento europeo ha costituito innanzitutto un baluardo rispetto alla volontà di sminuire le ambizioni politiche del progetto europeo che sono state molto forti a partire dalla fine degli Anni Novanta. La sua stessa esistenza e le logiche che ha innescato hanno reso impossibile cancellare l’esigenza, per l’Europa, di un governo di natura federale – quindi sovranazionale, sovrano nella sua sfera di azione e democratico in quanto responsabile di fronte ai cittadini e da essi direttamente legittimato. 

Il Parlamento europeo ha anche effettivamente lottato per fare in modo che la Comunità europea prima e l’Unione europea dopo compiano il salto politico-istituzionale in senso federale. Quest’anno ricorrono i 40 anni dal voto dell’Assemblea di Strasburgo a favore del Progetto di Trattato promosso da Spinelli nella prima legislatura (ricordato a pag. 24 di questo numero), quando il Parlamento era ancora un’istituzione consultiva che aveva come unico potere quello di respingere la proposta del bilancio comunitario. Un tentativo di enorme portata politica e ideale, che ha influito profondamente sui passaggi successivi, fino alla nascita dell’Unione europea e dell’euro, pur essendo stato sconfitto dai governi nazionali, che lo hanno “spolpato” della sua sostanza politica. Quest’ultima, ossia la nascita di un vero potere politico europeo anche se limitato agli ambiti economici e monetari, non è stata ancora realizzata neppure oggi, ma il suo modello e la sua lezione hanno ispirato generazioni di europeisti, aiutandoli a capire l’importanza della battaglia federalista per costruire un’Europa forte e democratica. Sappiamo poi che, nella legislatura uscente, a seguito del processo innescato dalla Conferenza sul futuro dell’Europa, il Parlamento europeo ha raccolto il testimone di Altiero Spinelli e ha elaborato le proposte e fornito gli strumenti per riformare i Trattati e avanzare concretamente sulla via dell’unione politica federale. Per questo, come nel 1984, come federalisti siamo oggi al fianco del Parlamento europeo. Ora che la decisione di aprire una Convenzione è nelle mani dei governi (che cercano di bloccare tutto, nel silenzio dell’informazione e nell’assenza di un confronto politico pubblico) ci battiamo perché ci sia una maggioranza di Paesi che accetta la sfida di aprire una vera riforma dei Trattati. 

Con il passaggio all’Unione europea e con lo sviluppo considerevole del sistema comunitario legato al Mercato unico e alle esigenze nate dal nuovo quadro internazionale, il Parlamento europeo ha anche acquisito negli anni competenze politiche sulle materie legate al Mercato unico e alla concorrenza, e un maggiore controllo, ancorché solo molto parziale, sulla Commissione europea. Le sue prerogative sono molto cresciute rispetto al 1979, ma, come si diceva prima, non ha ancora i poteri che spettano ad un’Assemblea eletta dai cittadini, proprio perché l’Unione europea non è un’Unione federale; quindi, non solo non è eletto sulla base di una legge elettorale uniforme in tutta l’Unione anche con liste transnazionali, cosa che indebolisce “l’europeizzazione” del dibattito elettorale, e non ha potere di iniziativa legislativa, ma soprattutto non controlla ancora la Commissione europea e non ha potere di tassazione e di bilancio. 

Perciò, ogni elezione europea dovrebbe essere (e su questo dovrebbero confrontarsi le forze politiche) non solo un test sulla direzione politica – più di destra o di sinistra – che gli elettori vogliono imprimere all’Unione europea sulle materie di sua competenza; ma soprattutto un test rispetto alla volontà di andare a completare il processo di costruzione dell’unità politica attribuendo al livello europeo le competenze che gli Stati ancora detengono, pur non sapendo più gestirle (dalla politica estera e difesa, alla politica economica e al bilancio, solo per citarne alcune), e dando al Parlamento europeo i poteri che permetterebbero a questa istituzione di rappresentare effettivamente i cittadini e la loro volontà politica, come recitano i Trattati (Art. 10 TUE).

Per queste ragioni, la decima elezione del Parlamento europeo dovrebbe diventare un momento di dibattito europeo sul futuro dell’Unione europea e su quanto il Parlamento europeo uscente ha saputo fare per favorire la nascita dell’unione politica federale. In un momento storico drammatico come l’attuale, i cittadini dovrebbero poter scegliere con chiarezza tra chi si impegna a sostegno della richiesta e delle proposte del Parlamento uscente per la riforma dei Trattati - per creare le condizioni di vera unità in tutti quei settori che la richiedono, e dare un senso concreto alle affermazioni rispetto alla necessità di una difesa europea o di una forte politica economica e sociale europea -, e chi invece contrappone a tutto questo un’Europa più debole e disunita, che ci porterebbe solo alla catastrofe. La prima responsabilità dei partiti politici nella campagna elettorale europea che si apre per la decima volta dovrebbe essere proprio quella di fare chiarezza in tal senso.

 

  

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